Un Idiota Recensisce “L’Idiota”

Creato il 22 marzo 2012 da Dietrolequinte @DlqMagazine
Postato il marzo 22, 2012 | LETTERATURA | Autore: Mario Turco

In “Amore e guerra” Woody Allen costruì una famosa gag giocando con i titoli dei maggiori romanzi dostoevskiani. Vanagloria che sia, a 26 anni, con la lettura de “L’idiota” posso finalmente dirmi destinatario pieno di quello sketch. Se questo inizio non lascia dubbi sulla deficienza mentale del sottoscritto, può comunque servire da spunto per una ben più interessante analisi del libro di Dostoevskij. “L’idiota” è naturalmente la storia di un idiota. Meglio, la scelta dell’articolo determinativo (che puzza tanto di assolutismo) fa presupporre che ivi sia narrata la storia dell’idiota per antonomasia, o quantomeno di un grande idiota. Il protagonista della vicenda è Lev Nikolaevic Myskin, arrivato improvvisamente a Pietroburgo in una fredda mattina di Novembre. Immemore delle sue origini per colpa dell’epilessia che lo ha tormentato per gran parte della vita trascorsa in un imprecisato paesino della Svizzera, egli sta tornando in Russia dopo una lontananza che aveva i caratteri dell’esilio. L’impronta autobiografica è qui lampante: Dostoevskij terminò il romanzo a Firenze, oppresso anche egli dalla malattia e dalle ristrettissime scadenze che la rivista “Russkij Vestnik” gli aveva imposto a causa dei suoi debiti di gioco. Ma se le urgenze della pubblicazione nel caso de “Il giocatore” erano state propedeutiche alla cesellatura di un capolavoro, ne “L’idiota” rappresentano la ragion prima dei difetti imputabili al romanzo. Lo stesso scrittore russo, infatti, alcuni anni più tardi ammetterà l’imperfezione di questa sua opera. Un centinaio di pagine e 4/5 personaggi in meno avrebbero potuto fare di un buon libro un capolavoro. Il nucleo centrale del romanzo è narrato con una prolissità e interrotto da così tante voci da perdere in compattezza e potenza. In tal senso emblematico è il personaggio del generale Ivolgin: Dostoevskij si dilunga troppo nella narrazione delle sue bugie, salvo poi dimenticarsene quando decide di farlo morire, concentrato come giustamente doveva essere sull’assassinio di Nastas’ja.

Così come risulta forzoso il personaggio di Ippolit Terent’ev, naturale prosecutore delle idee atee e nichiliste del Raskolnikov di “Delitto e castigo” e debole anticipatore del Kirillov de “I demoni”. Ne “L’idiota” la condanna della gioventù russa e della sua malìa verso gli irresponsabili principi di stampo europeo è così dichiarata da risultare patetica. Anzi, dirò di più: è così precisa e riuscita che rende patente il fastidioso conservatorismo di Dostoevskij. “L’idiota” è allora, mi si consenta il paradosso, l’opera migliore del Dostoevskij reazionario e quella peggiore del Dostoevskij progressista. Il principe Myskin è un idiota perché estraneo alle logiche della società russa. «L’amore astratto per tutta l’umanità è quasi sempre indice di egoismo» – fa dire lo scrittore russo a uno dei suoi personaggi. Il principe invece nutre profonda compassione per chiunque, per tutta la folta schiera di individui pronti a deriderlo o estorcergli denaro. Diventa addirittura amico dei suoi due rivali in amore: di Gavrila Ardalionovic fa il suo aiutante e con Rogozin compie il gesto più emozionante del romanzo, quello scambio di croci che è innanzitutto simbolico prima ancora che fattuale. Myskin funziona come un polo catalizzatore di tenebra: attorno a lui si raduna una fosca galleria di personaggi ambigui, contemporaneamente attratti e respinti dalla sua bontà. Aspiranti suicidi, malfattori, approfittatori, ladri, ubriaconi, donne perdute, ragazzini arroganti, criminali, in tutti loro il principe scorge la causa prima del dolore, penetra nell’io più profondo mettendo a nudo le idiosincrasie scatenanti le loro condotte depravate. Nessuno è veramente cattivo, sono le circostanze a renderli semmai tali. Ma Dostoevskij, fortunatamente, è lo scrittore più contradditorio della letteratura moderna e ciò che fa di questo un gran libro è la mancata corrispondenza alla morale dell’autore. Myskin, in fondo, non salva nessuno.

Le due donne che ama fanno una fine, ciascuna a modo suo, orribile: Aglaja sposa un conte polacco nullatenente che sarà motivo di rottura tra lei e la sua famiglia; Nastas’ja troverà la morte per mano di Rogozin, quella morte così pervicacemente cercata perché unico sbocco per il suo malessere spirituale. Myskin attira a sé soltanto i fanciulli, così come il Cristo del Vangelo di Giovanni che diceva: «Lasciate che i bambini vengano a me». Essi lo amano perché li tratta da pari, non nasconde loro la verità, mai. Il principe condivide con loro l’ingenuità ma soprattutto l’impotenza di quella età. Alcuni critici, soprattutto russi, hanno bollato il libro come poco riuscito per la sua eccessiva insistenza sulla bontà del principe. Ciò che invece colpisce me di più è la marcata (quanto sia voluta è fattore secondario) suddetta impotenza del principe. Nei fanciulli essa trova giustificazione nella loro debolezza costitutiva, in Myskin nell’estraneità a una società aggrappata a valori decadenti e volubili. È come se Dostoevskij, forse per pessimismo congenito, facesse di Myskin un profeta che non possa arrischiare la transustanziazione in un Messia. Sin dalla scelta, stentorea, del titolo “L’idiota” può soltanto accennare, a sprazzi, alla Verità evangelica della compassione universale, senza però riuscire ad ottenerla in vita. Un altro aspetto controverso del principe da mettere in luce è la sua incapacità di amare. Sembra che ami due donne e in realtà, invece, non ne ama nessuna. È folgorato non da Nastas’ja Filippovna ma dal ritratto, dipinto e parlato, che fanno della sua figura; di Aglaja Ivanovna lo attira invece la capricciosità infantile. Nella prosa di Dostoevskij l’amore puro, temporaneo eppur violento, è riservato solo a personaggi negativi ed estremamente passionali. Il principe è incostituzionalmente incapace di amare, condannato a un impersonale amore per il prossimo, che sia il beone Lebedev o il bugiardo Ivolgin. Egli non può e non riesce ad alimentare nessun affetto particolaristico perché sarebbe troppo egotistico.

Avrebbe perfino potuto sposarsi per due volte e in entrambe le occasioni sarebbe stato per pietà. “L’idiota” ha il merito di ospitare tra le sue altalenanti pagine la più fenomenale delle donne di Dostoevskij: Nastas’ja Filippovna. Una donna al contempo pazzesca e pazza, una femme fatale che sa essere schiava («Frustami pure: con le botte diverrò cosa tua. Quando si frusta qualcuno, ogni colpo è come un suggello») e dominatrice. Indimenticabile il suo ingresso in scena: dopo 150 pagine noiosette dedicate alla presentazione di Myskin irrompe lei e buttando nel fuoco i centomila rubli con cui Rogozin l’aveva comprata, sfida l’altro pretendente Gavrila a raccoglierli, promettendogli che saranno suoi se in questo modo paleserà davanti a tutti il suo turpe amore per il denaro piuttosto che per lei. Al rifiuto dell’uomo, Nastas’ja salva il denaro dal fuoco e glielo regala per aver dimostrato amor proprio. Come nota Aglaja nel colloquio finale che ha con la sua rivale, Nastas’ja ha probabilmente letto troppe poesie e si è calata con ostinazione nella maschera della donna perduta. Ella infatti rifiuta con disprezzo la corte interessata di Gavrila, ripudia il sostentamento del suo facoltoso tutore Tockij, fugge con Rogozin e per tre volte lo abbandona sull’altare per poi farsi rapire dallo stesso il giorno del matrimonio con il principe Myskin. Eppure la sua vita non è una farsa teatrale di provincia, se fin dall’inizio lo stesso Rogozin nota: «Ma se mi sposa, lo capisci, lo fa proprio perché è convinta che io debba toglierle la vita». Un maelstrom di autodistruzione in cui Nastas’ja si getterà infine, fino a quella specie di suicidio assistito che il brutale Rogozin porterà a termine. Una tragedia quindi annunciata sin dalle prime pagine del libro che “L’idiota” non riesce ad evitare. Nel finale del libro Dostoevskij abbandona i mille rigagnoli dispersivi aperti durante la storia e torna, con il fatalismo che gli è più congeniale, alla denuncia dell’impossibilità del Bene. Nemmeno il suo eroe più positivo ha saputo arginare il Male, pur riconoscendolo e compatendolo. La parola del principe Lev Nikolaevic Myskin, così come quella di Cristo prima di lui, è stata indifferente per le sorti dell’empia società in cui l’ha diffusa. Rimane la speranza di un futuro diverso, per chi si accontenta.



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