Cammina veloce nel buio del mattino, sull’asfalto lucido di pioggia. Attraversa la strada e viene verso di me, che esco dal portone con in mano un sacchetto della spazzatura. Poi vira all’improvviso, sembra che cerchi una macchina fra le tante parcheggiate lungo la via. Ha quel passo collant-in-vista, lunghi capelli mossi, le braccia strette al petto col pugno ripiegato verso la bocca, da cui spunta il rosso di una sigaretta. Sotto il braccio ha un libro, riesco a vedere a malapena la copertina. Mi sembra di leggere il nome di Giorgio Caproni. Una donna così, che all’alba è già di fretta, che forse lavora nella casa di cura dietro l’angolo, una dottoressa o un’inserviente, che magari non ha avuto il tempo nemmeno di bere un caffè prima di uscire di casa, questa donna così legge un libro di poesie. O forse ha un appuntamento per un ricovero, è malata, ha qualcosa di terminale che ancora non si manifesta nella forma che la devasterà, quindi si appella alla poesia, e alla sigaretta che le scalda le labbra. Scruto di nuovo il libro, poi la faccia di lei. Ha i capelli rossi, l’aspetto di un’irlandese. Mi supera sul marciapiede, fila veloce, testa leggermente inclinata. Deve averle dato fastidio la mia ultima occhiata, se non avesse tutto quel ritardo magari sarebbe passata dall’altro lato della strada, e questo per colpa mia, che stamattina ho addosso un giubbotto nero da teppista, e che non ho niente a che fare col suo mondo terminale, con le sue poesie, col suo tempo che arde in fretta. A casa senz’altro avrà lasciato sul letto sfatto una pila di cartelline chiuse, con e senza elastici. Sul dorso delle cartelline, a caratteri sottili e precisi, le date delle visite e i nomi degli specialisti, la borsa per il ricovero, piccola e compatta, era già pronta dalla sera prima, una piccola prova di organizzazione seria e precisa, la borsa era davanti alla porta, così che non se la sarebbe potuta dimenticare. Adesso corre davanti a me, le sue gambe magre si affrettano. All’improvviso non la vedo più, non esiste più. Il cancello della casa di cura è chiuso. Non c’è nessuno. Butto via il sacchetto della spazzatura nel cassonetto. I fari di una macchina, dall’altra parte, si accendono. Comincia così, anche oggi, un’interminabile battaglia, per costruire il mio personale mondo dei vivi.
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