ANNALISA CIVITELLI INTERVISTA / LUIGI FONTANELLA (per conto della F.U.I.S.)
D. La prima cosa che spicca acquisendo informazioni su di lei è la sua esperienza di insegnamento all’estero. Specificamente in America. Ci può raccontare brevemente come vive tutto questo e quali le differenze di insegnamento tra Italia e USA, e i vari comportamenti adottati dagli studenti dei due Paesi?
R. La mia esperienza d’insegnamento e di ricerca negli States è cominciata nel lontano 1976 alla Princeton University come Fulbright Fellow; poi nel 1977-78 alla Columbia; poi dal 1978 al 1981 presso la Harvard University, e infine dal 1982 a oggi presso la State University of New York, dove sono tuttora titolare della cattedra di Lingua e Letteratura Italiana. Le differenze sostanziali tra gli USA e l’Italia sul rapporto discenti/docenti consistono, sostanzialmente, in un utilizzo molto più facilitato in America degli strumenti pedagogici e di ricerca: biblioteche, ove si può accedere e prelevare quanti libri vuoi fino a notte inoltrata in qualunque giorno della settimana; molteplici strumenti di tipo audio-visivo; aule scolastiche ottimamente attrezzate nelle quali puoi usare dvd, film, smart boards (in italiano si potrebbero chiamare “lavagne elettroniche”), impiego di teleconferenze, power point, corsi interdisciplinari, ecc. Quanto ai “comportamenti” degli studenti americani, devo dire che sono decisamente più competitivi e – non se se giusto o no – hanno voce in capitolo sugli stessi docenti: alla fine di ogni Semester gli studenti di ogni corso hanno l’obbligo di esprimere un parere (motivato) sull’effettiva qualità dell’insegnamento che hanno ricevuto (puntualità del docente, capacità e chiarezza pedagogica, piano di ogni lezione, obiettivi prefissati e auspicabilmente raggiunti, disponibilità e rispetto delle ore d’ufficio [almeno tre-quattro a settimana] nelle quali qualsiasi studente di quel dato professore può andare a parlargli per chiarimenti e ulteriori delucidazioni sulla materia che sta imparando. Queste evaluations hanno una grande importanza e sono tenute in considerazione – insieme con le pubblicazioni e la presenza attiva sia nel Campus sia in eventi culturali in àmbito nazionale e internazionale – al momento dell’entrata in ruolo (tenure), dell’aumento di stipendio (merit increase) e della promozione (promotion) al successivo rango, cioè: da Assistant Professor (che corrisponde grosso modo al nostro titolo di Ricercatore) ad Associate Professor, e da questo a Full Professor (Ordinario) e a Distinguished Professor. Insomma, un sistema che volendolo sintetizzare in due parole potremmo definire meritocratico e competitivo.
D. Che ne pensa della riforma scolastica italiana? Quale sarebbe la soluzione giusta per riportare la scuola italiana in auge?
R. Sono più di tre decenni che non ho dimestichezza con il sistema scolastico in Italia, pur trascorrendovi più di un terzo di ogni anno. Posso dirle – in tutta onestà – che il livello di preparazione linguistica, sia sintattico sia grammaticale, è molto sceso rispetto a qualche decennio fa. Me ne accorgo ogni volta che tengo conferenze e seminari, come Visiting Professor, presso Atenei italiani. Una piaga, per altro, evidentissima, anche in un Paese anglofono come gli USA.
D. Gli studenti italiani, attualmente, riversano le loro scelte verso gli studi linguistici abbandonando il latino. Perché si bistratta la lingua dalla quale è nato l’italiano?
R. Si tratta di un problema reale e mi dispiace tantissimo questa sempre maggiore disaffezione verso una lingua così ricca qual è il Latino. Ma ormai l’orientamento culturale in Italia, come nel mondo, è sempre più diretto verso studi di tipo latamente “scientifico”: informatico, economico e tecnocratico, quasi come se studiare il Latino fosse un “lusso” e non una necessità basilare che ti permette di esprimerti meglio, sia per iscritto sia oralmente. Negli Stati Uniti – specialmente presso le università private – il Latino, come disciplina universitaria, permane e resiste… ma temo che diventi sempre più una specie di insula felix. Personalmente, la conoscenza del Latino e del Greco (studiato tanti anni al Ginnasio, al Liceo Classico e a “La Sapienza”) mi ha aiutato moltissimo in ogni senso, perfino nell’apprendimento dello stesso inglese, il cui lessico è composto, al 65 per cento, di termini di origine latina. Questa “disaffezione” verso il Latino si riflette anche nello studio e nell’insegnamento della Letteratura Italiana tout court.
D. Quali le sue considerazioni sull’uso del lessico al giorno d’oggi?
R. Considerazioni, ahimé, piuttosto tristi… anche a causa di un pubblico di lettori sempre più scarso, versus un pubblico di scrittori, o aspiranti tali, sempre più massiccio quanto impreparato: schiere enormi di scriventi che considerano, per esempio, la scrittura “poetica” come puro sfogo o passatempo (legittima, si capisce, ma senza alcuna dignità letteraria). Ovviamente ci sono eccezioni, nel senso che esistono siti di poesia di tutto rispetto all’interno di Internet (per es. Dedalus, gestito da Ivano Mugnaini o Compitu re vivi gestito da Sebastiano Aglieco – tanto per menzionare i primi due che mi vengono in mente). Internet, in generale, ha in effetti contribuito fortemente a ingrossare queste schiere di imbecilli; mi permetto rimandare a un mio articolo, Il poeta internauta, di qualche anno fa (in “Poeti e Poesia”, n. 25, aprile 2012). Sono convinto che per un poeta – l’ho detto e scritto più volte – un’efficace conoscenza della propria lingua sia, ancora prima della semplice comunicazione, un mezzo per rivelarsi al mondo. Credo anche che alla base dello scrivere (specialmente poesia) ci debba essere un’autentica passione, una vera necessità, un vero impegno individuale e civile.
D. Quanto imparare le lingue straniere influenza il nostro modo di pensare? E come approcciarsi verso queste nuove conoscenze?
R. Imparare lingue straniere serve innanzi tutto a conoscere l’antropologia culturale di quel Paese di cui s’impara la Lingua. Credo poi che per uno scrittore che abbia voglia di esprimersi attraverso un proprio plurilinguismo sia un dovere. Alle lingue straniere ci si avvicina imparando, preliminarmente, almeno una piccola base grammaticale-sintattica, ma poi procedendo direttamente alla lettura di testi letterari, cominciando da una buona letteratura d’infanzia. Ovviamente, viaggiare in quel Paese; fruire di opere cinematografiche in lingua originale, stabilire una qualsivoglia corrispondenza pen-pals, ecc. aiuta moltissimo. Purtroppo negli Stati Uniti, Paese abbastanza sciovinista, molti ritengono superfluo l’apprendimento di una Lingua che non sia l’inglese. Tutto ciò tende a rafforzare l’inglese come lingua egemonica nel mondo, Italia compresa (Paese esterofilo per eccellenza), dove assistiamo quotidianamente al massiccio ingresso del lessico inglese nel linguaggio pubblicitario e commerciale.
D. In qualità di fondatore e presidente dell’IPA (Italian Poetry in America) e come direttore della casa editrice Gradiva Publications, che ruolo dà alla poesia nel mondo? Può raccontare come la poesia si evolve, come fare a divulgarla in modo più incisivo, e che dire dei problemi di pubblicazione soprattutto con la presenza di case editrici a pagamento?
R. La poesia, per sua stessa natura, è un genere che ha sempre avuto difficoltà a imporsi in quasi tutte le società, specialmente occidentali. Paradossalmente è la più inutile e allo stesso tempo la più preziosa delle attività umane. Si tratta di un’espressività creativa che si pone in conflitto nei riguardi del sistema sociopolitico in cui si trova a operare; conflitto di ordine economico, etico, psicologico, ecc. verso altre attività ben più “importanti” sul piano della produzione economica. Eppure un poeta, degno di questo nome, è ben consapevole di questi ostacoli, più sensibile di altri alle rovine, alle carenze, alle ingiustizie della sua “civiltà”. Allo stesso tempo non ha mezzi sufficientemente idonei per fronteggiarle, epperò ha il dovere di reagire nella maniera a lui più congeniale, cioè con il suo dire, con il suo denunciare, senza per questo mai sacrificare l‘immaginario che è dentro di lui. Ce lo ha insegnato già Dante, il nostro primo, grande poeta. È una problematica che richiederebbe un lungo ragionamento che non mi è possibile sviluppare in un’intervista.
Quanto alla I.P.A. (Italian Poetry in America) e all’editrice Gradiva Publications (editrice che affianca e potenzia il lavoro dell’omonima rivista), le posso semplicemente dire che ambedue hanno come obiettivo di base la promozione e la migliore conoscenza della poesia italiana nel Nordamerica e, più in generale, nei Paesi anglofoni, dove la conoscenza della nostra poesia è scarsa o molto limitata. Da più di tre decenni a questa parte è stato fatto tanto lavoro sia da parte della rivista “Gradiva” (ora gestita e distribuita dalla casa editrice Olschki) sia da parte della I.P.A. in questa direzione: numerose pubblicazioni bilingui, convegni e seminari sulla traduzione (il prossimo, in aprile, sarà tenuto da Valerio Magrelli proprio presso il nostro Dipartimento), letture bilingui, frequenti incontri transnazionali e interdisciplinari, ecc. Mi permetto rimandare almeno a due pubblicazioni: un imponente volume, curato nel 2004 da Alessandro Carrera e Alessandro Vettori per l’editrice Cadmo-Casalini (Binding the Lands), e le tre puntate relative a una mia recente, ampia panoramica sui poeti italiani della diaspora uscite nella rivista “Poesia” (numero di ottobre, di novembre e di dicembre 2015). Rimando anche al sito stesso di Gradiva: http://www.italianstudies.org/gradiva/
Quanto infine ai problemi di pubblicazione e la presenza di case editrici a pagamento, occorre distinguere. Molto schematicamente potrei dirle che la questione riguarda soprattutto la pubblicazione di libri di poesia, benché anche nella narrativa si annoverano casi storici addirittura clamorosi: basti pensare che il primo romanzo di Moravia, Gli indifferenti, fu pubblicato a pagamento (!). Oggi per qualsiasi editore pubblicare una raccolta di poesie comporta un investimento, che è al 90% in perdita. Pochissime le eccezioni. Nel nostro mercato delle Lettere operano tanti editori-pescecani, i quali non solo chiedono che un buon numero di copie sia acquistato dall’autore (richiesta anche accettabile se non si tratta di una quantità esorbitante; in fondo l’autore spende dei soldi per avere un po’ di copie del proprio libro a un prezzo scontato), ma pretendono dall’autore perfino un cospicuo contributo per le spese di stampa. Così non c’è alcun rischio finanziario da parte di queste pseudocase editrici: questo per me vuol dire semplicemente stampare non “pubblicare”, ossia rendere pubblico, un libro.
Testo dell’intervista di Annalisa Civitelli della F.U.I.S. (Federazione Unitaria Italiana Scrittori) a Luigi Fontanella. Gennaio 2016