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Un'intervista con Sono Sion (An Interview with Sono Sion)

Creato il 29 novembre 2011 da Makoto @makotoster

Un'intervista con Sono Sion (An Interview with Sono Sion)

«E se aggiungessi il movimento?»
Intervista a Sono Sion

a cura diMatteo Boscarol


D.: Prima di tutto vorrei chiederle dei suoi inizi,di come è entrato nel mondo del cinema e se da ragazzo aveva particolareinteresse per la settima arte.R.: Da ragazzomi piaceva molto guardare film alla televisione, c’erano molti film europei eamericani a quel tempo, tanti capolavori, una cosa che è impensabile nellatelevisione giapponese di adesso.
D.: Ad esempio?R.: Un po' ditutto, film di Fellini e ancora più vecchi, quelli di De Sica, per esempio;bastava guardare la tv e si poteva già imparare molto [dai film]. Era una cosanaturale, come adesso ci sono i programmi per bambini o come i ragazzi di oggiguardano i cartoni animati, così noi avevamo i film. Non era niente dieccezionale, era una cosa naturale. Ne ho guardati tantissimi, a quel tempo eroun esperto, mi scrivevo tutti i dati tecnici dei film su un quaderno, dal nomedel montatore a quelli di tutti i membri dello staff. Mentre gli altri miei compagnisi divertivano a parlare dei protagonisti dei loro cartoni animati preferiti,io me ne venivo fuori con Ingrid Bergman [ride] e per questo non avevo amici.Una strana sorta di follia per il cinema, ecco che cos'era la mia. Insomma, mipiaceva il cinema, ne ero attratto, senza per questo avere nessun particolareproposito di diventare regista o quant'altro. Mi piaceva anche leggere manga olibri, ad esempio le storie di Edogawa Ranpo; insomma ero un ragazzo a cuipiaceva stare da solo. Odiavo stare insieme agli altri. A diciott’anni ero unappassionato di cinema ma suonavo anche in un gruppo…
D.: E la poesia…R.: Sì, certo,scrivevo poesia e il mio nome cominciò pian piano a girare, tanto che, a uncerto punto, pensavo di diventare un poeta di professione. Però, se avessipubblicato dei libri, la mia scrittura sarebbe diventata uniforme; con icaratteri di stampa, le emozioni non possono trasparire come con la propriacalligrafia. Invece, volevo che il mio stato d'animo rimanesse nella scrittura,uno stile nervoso e tremolante quando ero irritato, e uno più disteso e belloquando ero calmo e in pace con me stesso. È per questo che decisi di cominciarea fotografare queste poesie che scrivevo in giro per la città, erano dei veri epropri graffiti. Facendo le foto di queste poesie/graffiti, accadeva chequalcuno vi passasse davanti e ne fosse catturato. «E se aggiungessi ilmovimento?» mi chiesi, ed ecco che allora tirai fuori una 8mm e cominciai agirare…
D.: Poesia in movimento…R.: Sì, e cosìpensai che sarebbe stato interessante girare la videocamera verso di me ecominciare anche a parlare [il riferimento è al film I Am Sion Sono!]. Fu intrigante e la cosa ebbe anche dei consensi,ma non lo consideravo un primo passo per diventare regista; non è che fosse unacosa così seria, era solo un esperimento interessante, divertente. Unfilm-performance personale, fatto da una o due persone, io e qualche mio amico.
D.: E poi il Pia Film Festival...Un'intervista con Sono Sion (An Interview with Sono Sion)R.: Fu inquell'occasione che presentai I Am SionSono!, però allo stesso tempo scrivevo manga, suonavo musica e facevo anchel'attore in teatro. Insomma mi occupavo di diverse cose, non è che per il solofatto di aver partecipato al Pia mi considerassi un "regista".Quell'anno al festival andavano molto le storie drammatiche e lacrimose e cosìanch'io, per l'edizione successiva, mi decisi a girarne una, Otoko no hanamichi (Man’s Flower Road),una storia personale dove misi dentro le baruffe e i pianti della mia famiglia…e vinsi il Gran Prix! Quindi ricevetti un premio in denaro, pochi soldi a direil vero, solo tre milioni di yen [oggi circa 30.000 euro], per realizzare unfilm vero e proprio, Jitensha toiki (Bicycle Sighs). Avevo 25 anni e ancoranon sapevo che cosa avrei fatto in futuro [ride]. Ma in quell'edizione delFestival incontrai Ōshima Nagisa che faceva parte dellagiuria e che mi incoraggiò, così come furono determinanti le sue parole chelessi in un libro, dove diceva che un uomo a 25 anni dovrebbe decidere che cosafare nella propria vita. Visto che in quel momento era il cinema ciò che erapiù a portata di mano, decisi di provare questa strada; non è stata quindi perniente una decisione ponderata ma anzi assai idiota [ride]. Direi che ilmomento in cui ho sentito dal profondo che la mia professione sarebbe diventataquella di regista è stato quando ho fatto Jisatsu sākuru (SuicideClub), cioè a quarant'anni. Fino a quel momento, per vent’anni, da quandoho cominciato i primi esperimenti indipendenti in 8mm, è stata più unaquestione di perseguire e creare qualcosa di artistico, delle performance. Solocon Suicide Club sono entrato per laprima volta nel cinema commerciale.
D.: Dai suoi primi esperimenti fino al suo ultimofilm Himizu, è cambiato il suo approccio al cinema, ilsuo modo di lavorare?R.: Sa, sonocambiati i tempi, quello che facevo io venti o trent'anni fa e che non facevanessuno è diventato ora normale.
D.: Vorrei parlare un po' di due registi giapponesi,Ishii Teruo e Terayama Shūji. A mio modo di vedere, ci sono dei punti incomune, delle similitudini fra i suoi lavori e quelli di questi due autori. Leiche cosa ne pensa?R.: Questo èperché ho visto molti film giapponesi di un certo periodo, cioè gli anni '60 e'70. Il cinema giapponese per me è quello, quindi Ishii, Terayama, ma devoaggiungere anche Fukasaku Kinji. Non il cinema che viene prima, non quello cheviene dopo, ma soprattutto questo è per me il cinema giapponese. Terayama l'hoanche incontrato, o per meglio dire, una volta sono andato in un caffè e luiera lì [ride], e siccome Terayama ha scritto anche sullo shoplifting, per rendergli rispetto decisi di andarmene dal localesenza pagare… [ride]. Per quanto riguarda Ishii, una volta ho fatto anche unpiccolo cameo in un suo film (Mōjū tai issunbōshi, Blind Beast vs. Dwarf, 2001), è stataun'esperienza interessante. Da lì a tre anni, poi, sarebbe morto.
D.: Nelle sue interviste vengono spesso fuori i nomidi Cassavetes e Fassbinder. Quali sono per lei i punti o le parti interessantidel loro cinema?R.: A Cassavetesnon interessava fare dei film "belli", ma piuttosto riprendere gliattori, le persone, che è una cosa che faccio anch'io, indipendentemente daisoldi che ho a disposizione. Dreyer, il regista di La Passione di Giovanna d'Arco, per questo suo film aveva fattocostruire un grande set, per poi riprendere però soltanto i volti [ride]. Faretutto il lavoro del set, quindi, non ha avuto alcun significato… e questo a mepiace molto. L'altro ieri ho visto il film d’esordio di Pasolini, Accattone, e mi pare che proprio inquell’occasione Pasolini abbia consigliato di guardare La Passione di Giovanna d'Arco e sostenuto che per fare un film èimportante soprattutto saper riprendere le facce. Anch'io sono della stessaidea, per quanto un paesaggio possa esser bello, non riuscirà mai a emozionare[come un'espressione del viso], questa è la lezione che ho imparato daCassavetes.
D.: E riguardo a Fassbinder?R.: Ci sono duecose che mi piacciono del suo cinema: una è il suo modo di lavorare come unpazzo, in un anno cinque o sei film, senza distinzione tra lavori maggiori ominori. Non c'è un film più bello o più brutto dell'altro, è la totalità dellesue opere che caratterizza Fassbinder. Poi, il secondo aspetto che mi attrae èche i suoi lavori sono privi di humour, non c'è mai un lieto fine, sono tuttestorie terribili. A me piace molto, ad esempio, il suo penultimo film, Veronika Voss, girato in bianco e nero,penso sia un film che mi ha influenzato parecchio, specialmente quando ho cominciatoa fare cinema.
D.: Nei registi giapponesi degli anni '60 e '70,temi come sesso e violenza assumevano spesso un significato politico. Questistessi temi emergono ripetutamente anche nel suo cinema. Ci potrebbe dire lasua opinione?R.: Erano anniin cui tutto era politico, pensi a Pasolini oppure al Festival di Venezia dovela competizione venne sospesa e nessun premio fu assegnato, erano gli annidella contestazione studentesca, era il periodo insomma. Ora, con il disastroappena successo in Giappone [il riferimento è al terremoto e allo tsunami delmarzo 2011, con la conseguente contaminazione nucleare], si presenta un tempodove di nuovo il politico si riafferma, c'è una divisione netta tra chi siinteressa al sociale e al politico e chi se ne disinteressa, e solo i primihanno la coscienza che un nuovo tempo in cui sarà necessario "riflettere"è oramai cominciato.
D.: Come si pone lei rispetto a tale questione?R.: L'incidentedi Fukushima non ha solo causato radiazioni nucleari, ma ha anche evidenziatovarie altre cose, come la differenza e il rapporto fra città e campagna o ilproblema delle concessioni, ad esempio. Inoltre, nell'attuale movimento antinuclearesono concentrate varie problematiche, quella politica, quella sociale, quellasull'educazione, insomma tutte le "cose sporche" sono venute fuori.Per questo, nella tragedia, il disastro nucleare è stato paradossalmente quasi"un bene".
D.: Secondo lei, cambierà anche il mondo del cinemagiapponese?R.: Vorrei checambiasse, vorrei proprio…
D.: E per quanto riguarda lei, il suo cinema?R.: Dopo Himizu sto pensando di fare un film suFukushima, una cosa che fino a ora era impensabile per me [ride]. A parteYamada Yōji, che ha cambiato la sceneggiatura delsuo film dopo l'11 marzo, nessuno deglialtri si è mosso. La televisione ha ripreso a trasmettere i suoi varietà comese niente fosse successo; sembra che abbiano lasciato a me questo compito… Dopoquesto [il riferimento è a Himizu],su Fukushima ne farò un altro abbastanza grande l'anno prossimo…
D.: E Lord of Chaos, il suo primo film in lingua inglese, da tempo in preparazione?R.: Per Lord of Chaos dovrei cominciare leriprese l'anno prossimo a marzo, ma quasi sicuramente, visti i fatti accadutidi recente in Norvegia (il massacro del fanatico di destra nel luglio 2011), dovrò cambiarealcune cose e alcune sfumature….
D.: Ci direbbe quali sono le cose che più odia e chepiù le piacciono della società giapponese?R.: Adesso,appunto, il fatto che le centrali nucleari erano e sono viste come necessarie,come qualcosa che era ed è un bene avere, mi sembra incredibile. Dimostra finoa che punto la coscienza e la volontà dei giapponesi siano deboli.
D.: E la cosa che le piace di più?R.: La cosa chemi piace di più… è difficile… mah… forse una sorta di affezione che mi lega alposto, ma è naturale, essendo io nato in Giappone. Quindi non è una cosa buonain sé, è il rapporto con il proprio luogo natio, si ha una sorta di familiarità,di comodità. Il Giappone non è un bel posto, almeno per me.
D.: Vorrei ora affrontare l'elemento musicale neisuoi film. Il suo modo di usare la musica, specialmente quella classica, èsempre riuscito. Come sceglie di solito le musiche dei suoi lavori?R.: Nel cinemagiapponese, se devi commissionare delle musiche originali, il tempo adisposizione per realizzarle è davvero minimo, e se il musicista non è ungenio, è quasi impossibile che ne venga fuori qualcosa di buono. Per questo, ingenere, uso delle musiche già esistenti che scelgo per le scene più importanti;le scelgo dall'insieme dei brani che ho ascoltato personalmente fino a quelmomento. Mi piace molto usare brani abbastanza famosi di musica classica,perché spesso altre musiche, pur belle, hanno forti sbalzi di ritmo e sarebberoquindi difficili da inserire. Quando ero ragazzo, le colonne sonore, i braniprincipali, erano davvero delle buonissime musiche ma, da un certo punto inavanti, sono diventate niente di speciale. Non ci sono più musiche come quelledi Delitto in pieno sole, Amarcord o La strada, ad esempio.
D.: Anche per quanto riguarda l'uso dei colori c'èuna forte attenzione da parte sua, fin da opere come Keiko desu kedo (I Am Keiko), ma anche in Koi no tsumi (Guiltyof Romance), ad esempio.R.: Ah… I Am Keiko… pensi, è costato solo unmilione di yen [circa 10.000 euro], praticamente il costo della pellicola… Ilcolore… quando faccio un film, sento talvolta che sto realizzando qualcosa diartistico e non solo qualcosa che ha a che fare con la performance degliattori. È stato così per Guilty ofRomance, e soprattutto per Kimyōna sākasu (Strange Circus), dove il film è per metàrecitato e per metà realizzato secondo l’ispirazione artistica. Talvoltasuccede anche questo.
D.: Di solito lei che tipo di film guarda?R.: Ne guardoogni giorno uno, nell’ultimo mese sto guardando molto Pasolini, anche i suoidocumentari, e sto leggendo un suo libro. Più o meno, guardo un regista ognimese.
D.: Guarda anche i film contemporanei?R.: Quasi mai.Qualche volta qualcosa al cinema, ma più che altro per vedere fino a che puntosono arrivati sul piano tecnico, oppure per i movimenti di camera, noncertamente per le storie. Non ci sono più i film “d'arte”, oggi non sono più dimoda, ora c'è solo Hollywood. In passato, il centro del cinema era in Europa, aParigi. Oggi si è spostato negli Usa, a Hollywood.
D.: Ha mai usato la computergraphics nei suoi film?R.: Quasi mai,diventa subito obsoleta.
D.: Quando fa un film, qual è il momento piùinteressante per lei, la stesura della sceneggiatura o…R.: Nessuno: nonmi diverto [ride]! Ora che il cinema è diventato un lavoro, un impegno, non midiverto più. Ma questa è una cosa buona, perché qualunque lavoratore, quando siimpegna, soffre per portare a termine il proprio compito. È una cosa positiva,perché affronto seriamente il mio impegno e, quando è finito, mi possofinalmente rilassare.
D.: Lei spesso scrive dei libri su cui poi basa isuoi film e viceversa. Come si articola questo rapporto tra film e scrittura?R.: Sono partitodalle parole, dalla poesia, quindi le parole sono molto importanti per me.Quando ho tempo, scrivo prima il romanzo, poi la sceneggiatura e, infine, nefaccio un film. Ma quando non ho tempo, scrivo il romanzo dopo la realizzazionedel film, un modo per fissare le idee. Ultimamente, però, purtroppo non ho piùtempo neanche per questo. Himizu è ilprimo film dove ho preso il soggetto da uno scritto altrui, però il filmsu Fukushima lo scriverò io stesso. Comunque mi piace molto sperimentare,quindi sono curioso di provare a usare anche scritti di altri autori.
D.: Ha anche realizzato dei pinku eiga. Che ricordo ha di questa esperienza?R.: Ne ho fattisolo due, soprattutto per guadagnarmi da vivere… ma non sono serviti neanche aquello, perché l’intero budget l'ho usato per pagare gli attori e lo staff, e ame non è rimasto niente. Molti altri registi hanno fatto pinku eiga, come Takita Yōjirō o Suo Masayuki, ma allorac’era più libertà per i registi, c'erano più sbocchi. Adesso, invece, questalibertà non c’è più, tutto è preordinato; ho sentito questa rigidità, questachiusura e perciò ho smesso. Ho fatto anche un AV prima del '90,quando questo genere era in voga. Allora il cinema giapponese era bloccato, nonc’era spazio per gli indipendenti e molti registi si sono messi a fare questotipo di film per vivere, come Hirano Katsuyuki e Higuchi Noboru. Ho fatto anchel'aiuto regista e il cameraman in questo settore, ma sono stato licenziato[ride].
D.: Ha anche lavorato per la televisione, filmandoun paio di episodi per due drama apuntateR.: Ho ricevutola proposta dall’agenzia e l'ho fatto [ride].
D.: Nei suoi film sembra emergere qua e là il temadel rapporto tra memoria e identità. Ad esempio, in Noriko no shokutaku (Noriko's Dinner Table) questo rapporto è realizzato attraverso lacontraffazione, mentre in Chanto tsutaeru (Be Sure to Share) ilricordo della severità del padre consente al protagonista di riconsiderare ilrapporto affettivo con lui.R.: Non l’hopensato come tema esplicito. Noriko'sDinner Table è una storia che ho sentito da una «regina sadomaso». Ci hopensato per anni e poi l’ho realizzata.
D.: Il tema della famiglia a noleggio, del prestitodelle persone, da Kawabata Yasunari a Yoshimoto Banana, è un tema che siritrova in varie opere letterarie giapponesi. Noriko’s DinnerTable lo svolge in maniera originale,investendo l’immagine stessa della famiglia.R.: Non so se lamia famiglia [quella raffigurata nel film] corrisponda alla famiglia giapponesetipica. Però di Noriko's Dinner Tablemi piacerebbe fare dei remake in altri paesi, non so, America o Corea adesempio, in modo che in ogni paese si aggiungano delle caratteristiche delluogo, come si fa di solito con le rappresentazioni teatrali.
Le domande e le risposte finiscono qui, ma in realtàla conversazione è andata avanti ancora per molto, a proposito della passionedi Sono per Moravia, del suo odio per la tv giapponese, per il mondo dei tarento e su molto altro ancora.
Shimokitazawa, Tokyo, 5 agosto 2011



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