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Amore come occasione per accorgersi dell’altro, come crescita, riappropriazione della coscienza di sé,del proprio corpo, dei propri sensi, della libertà di pensare e sentire a modo proprio. L’amore dunque come rivoluzione, come grimaldello capace di sovvertire un equilibrio anestetizzato di menti e libertà. L’amore come esercizio spirituale, come ginnastica di amor proprio, come fucina di dignità. L’amore come allegoria del tempo necessario ad accorgerci che stiamo vivendo, non sopravvivendo. L’amore come metafora irrinunciabile del bello e del puro.
Amore come occasione per accorgersi dell’altro, come crescita, riappropriazione della coscienza di sé, del proprio corpo, dei propri sensi, della libertà di pensare e sentire a modo proprio, del proprio corpo, dei propri sensi, della libertà di pensare e sentire a modo proprio.PREFAZIONE
Una delle tante autostrade che escono dall’area metropolitana di Londra verso nord. Il traffico scorre lento, il sole tramonta tardi come tutte le sere inglesi: un’estate che si prolunga tra piovaschi e sole tiepido, crudele.
Ascoltavo un canale della Bbc, musica classica. Quando ormai si era fatto completamente buio -non ricordo che ora poteva essere stata- la musica s’interrompe per lasciare spazio ad una trasmissione d’intrattenimento condotta da una voce femminile un po’ roca che sapeva di gioventù ben trascorsa.
Risponde a telefonate in diretta, argomento: l’amore. Cerco di prestare attenzione, m’incuriosisce individuare eventuali differenze tra il nostro e il loro modo di affrontare un argomento tanto abusato. Un signore telefona e racconta di quant’è difficile per lui parlare d’innamoramento con il nipote, appena adolescente. Dice: “che ne può sapere lui dell’amore che è ancora un ragazzino e non sa nulla della vita…”. La donna replica, pronta: “ma lei è proprio sicuro che bisogna essere maturi per sapere che cos’è l’amore e poi noi, che la vita dovremmo conoscerla almeno un po’, dell’amore sappiamo davvero tutto, possiamo istruire un giovane ad amare con più sicurezza e serenità?”.
La discussione radiofonica va avanti per un po’, la seguo a tratti, sono già sulle strade non lontano da Oxford, un bagliore di luna illumina i prati tutt’attorno e imbrunisce le ombre delle immense querce che li delimitano. Penso a quelle apparenti ovvietà che avrebbero fatto discutere le radio di mezzo mondo. Mi chiedo se davvero sia così tutto ovvio? E se l’amore semplicemente non rappresentasse l’argomento più difficile da discutere ma anche il più urgente?
L’idea di scrivere un libro sull’amore –ben conscio del rischio di banalizzazione che esso comporta data la pletora di pubblicazioni che ogni anno affollano gli scaffali delle librerie- nasce da questa semplice sensazione.
Per secoli abbiamo fatto di tutto pur di non vivere d’amore. Abbiamo lasciato questa scelta ai santi e ai folli, ai poeti e agli utopisti proprio per arrivare a dirci –consolandoci- che non è tema così importante per comuni cittadini. Prima deve venire il lavoro, il denaro, il potere, la guerra e la pace, l’economia e la politica, la famiglia e lo Stato, l’individuo e la collettività. Abbiamo pensato che perfino la felicità potesse essere vissuta senza amore.
Così si progettano e costruiscono esistenze appoggiate sulle palafitte fragili dell’analfabetismo affettivo. Disegnate città, previsto lavori, organizzato quotidianità che potessero prevedere vite emotivamente superficiali. Ci siamo perfino dimenticati di’insegnare ai nostri figli a comunicare –nel senso empatico del termine- convinti che sarebbe bastata l’invasione tecnologica e telematica a garantire ognuno di non essere più solo.
Abbiamo parlato per decenni di alienazione, poi l’abbiamo organizzata in ogni posto di lavoro e in molte case, ed ora ci inorgogliamo all’idea che immensi territori orientali siano il teatro di una gigantesca transizione dalla lentezza dei campi alla follia delle fabbriche di grattacieli. Siamo riusciti ad affogare nel fare, il pragmatismo si diffonde come icona dell’efficienza e della subalternità globale: così riusciamo a non pensare se non alla produzione di cose, mai d’idee.
L’amore dunque come rivoluzione, come grimaldello capace di sovvertire un equilibrio anestetizzato di menti e libertà. L’amore come esercizio spirituale, come ginnastica di amor proprio, come fucina di dignità. L’amore come allegoria del tempo necessario ad accorgerci che stiamo vivendo, non sopravvivendo. L’amore come metafora irrinunciabile del bello e del puro.
Amore come occasione per accorgersi dell’altro, come crescita, riappropriazione della coscienza di sé, del proprio corpo, dei propri sensi, della libertà di pensare e sentire a modo proprio.
Cosa c’è di più strategico dell’amore?
Come potrebbe un politico pretendere di guidare una nazione se non sa amare? Come potrebbe un industriale pretendere di guidare mille dipendenti se non conosce il senso della passione dei sentimenti? Eppure la storia è lastricata di leader cinici e di manager emotivamente irrisolti, così come la maggioranza di noi. Ecco perché, di fronte alla più profonda crisi dell’occidente, non sappiamo far altro che replicare le scelte del passato: facciamo crescere la concorrenzialità, la violenza, l’indifferenza per l’altro, la più cinica delle ambizioni. Sappiamo distruggere per poi ricostruire, uccidere per poi perdonare, tradire per poi chieder scusa.
E se la soluzione partisse dall’homo emotivo, non più da quello laboriosus? E se fosse venuto il tempo di prendere e dare delle lezioni d’amore? Se il vero frutto di un’acquisita modernità corrispondesse con il concedersi il tempo, la voglia, il coraggio d’innamorarsi?
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