Gianfranco Lauretano, Incontri con Clemente Rebora, La poesia scoperta nei luoghi che le hanno dato vita, Rizzoli Bur
di Corrado Bagnoli
Mi è piaciuto molto questo libro di Gianfranco Lauretano che egli stesso chiama racconto. Non è infatti un saggio di critica letteraria, non è una biografia, non è una ricostruzione storica, ma è invece tutto questo insieme e altro ancora. Soprattutto è un gesto esemplare, l’indicazione chiara e semplice di cosa possa voler dire leggere un poeta, tirarlo fuori dalla scatola dove era stato rinchiuso, dallo scaffale di polvere e luoghi comuni dove era stato appoggiato, forse dimenticato. Dico un gesto perché il racconto di Lauretano viene quasi come il resoconto di un viaggio realmente intrapreso per incontrare il poeta e i suoi luoghi, per ascoltare la voce della realtà che il poeta sentiva e alla quale rispondeva con urgenza e necessità attraverso la sua vita e la sua poesia. Per conoscere, sembra dire Lauretano, occorre andare incontro, occorre un moto, e il viaggiatore-narratore di questo libro impara ciò che sa proprio dal confronto continuo e serrato con quello che è più dell’oggetto del suo studio e diventa invece una specie di maestro e di guida nel suo percorso; impara viaggiando, non solo, ma portando con sé la moglie, facendosi introdurre da amici là dove deve andare, portandosi dietro insomma la vita e scegliendo di spenderla nella rincorsa a una poesia che, come dice lui, “ha molto da dire al nostro presente”. Ed è un gesto esemplare perché traccia una via per chiunque decida di leggere davvero un poeta: la lettura è un avvicinamento, ci dice questo libro, ed è un lasciarsi attraversare. Lauretano, in una delle sezioni di questo taccuino di viaggio, cita questi versi di Rebora: “Qui nasce, qui muore il mio canto:/ E parrà forse vano/ accordo solitario; Ma tu che ascolti, recalo/ Al tuo bene e al tuo male: E non ti sarà oscuro”. Egli fa sua l’indicazione di Rebora su come si faccia mai a capire la poesia, come si possa aggirare la sua oscurità: occorre avvicinarsi al canto, accostandolo al nostro bene e al nostro male, paragonando cioè se stessi, la propria anima a quello che la poesia ci dice. Lauretano sa, grazie anche all’incontro con Rebora, che la poesia è uno strumento, che sta dentro il mondo, dentro il movimento del mondo, e partecipa alla sua bellezza e alla sua miseria e ne è cambiata. La poesia si confronta con tutto, mangia, direi tutto, ma non è il tutto: essa è strumento “sporco e puro come il mondo, per attingere a una conoscenza più profonda e prossima all’incessante movimento dell’io e dell’universo nel cammino di adesione al proprio destino”. Il libro è ricchissimo di passaggi che illuminano la poesia di Rebora, la quale al contempo, però, illumina il metodo e cadenza il passo del lettore-narratore: nell’analisi dei testi, nel paragone costante con alcuni altri maestri della poesia, uno su tutti Leopardi, ma poi anche Carducci o Montale, prende forma la figura di un’opera unitaria e fortissima e di un uomo deciso e straordinariamente determinato alla scoperta della verità e del bene; di un poeta che attraverso la musica si avvicina al silenzio della natura che “in me si accorge”; di un uomo che ha amato e che è stato riamato, e che non ha trovato pace e felicità fino a che, grazie ad incontri determinanti come quello con Rosmini, non trova il grande alveo dentro cui anche la sua poesia si incanala, il grande abbraccio con Dio a cui consacra infine tutta la sua vita. La tesi dell’unitarietà dell’opera di Rebora dai Frammenti lirici ai Canti dell’infermità – spesso negata da una critica il cui sguardo è oscurato da una ideologia che non è capace di avvicinare davvero l’opera – attraverso queste pagine trova piena conferma, ma sarebbe certo riduttivo relegare il valore del libro di Lauretano a quello di una ricognizione critica attenta e intelligente, cosa di cui peraltro, comunque abbiamo tutti bisogno. Perché il valore del libro sta proprio in quel suo mettersi a disposizione di ciò che intende conoscere, di quell’oggetto che, nella sua grandezza e nella sua necessità ed urgenza, impone a Lauretano un metodo che lo mette in grado di illuminarne la verità e l’importanza per l’uomo contemporaneo e per tutti coloro che si avvicinano alla poesia con il desiderio vero di conoscere. Questa disposizione è frutto anche di un’umiltà che contrassegna da tempo l’opera critica e poetica di Lauretano e sembra qui essere la condizione necessaria per il suo gesto, per il suo e il nostro viaggio, perché come diceva Agotha Kristof “ per scrivere bisogna essere niente, cosa che vale anche per leggere e scrivere sugli altri”. Per questo bisogna ringraziare Lauretano, non solo perché ci ha riportato dentro il cuore pulsante della poesia del Novecento che troppo spesso è stata liquidata senza una sua vera comprensione, ma anche e soprattutto perché ci ha indicato con quest’opera una concreta possibilità di pensare la poesia tutta come un luogo privilegiato per fare i conti con la nostra umanità, con il nostro destino. E perché lo ha fatto essendo essa stessa ciò che indica, diventando forma mentre si fa materia, obbedendo con umiltà alla materia del mondo raccontato nel verso di un poeta affascinante e complesso, drammatico e vitale come Rebora.***
La mia vita, il mio canto
L’egual vita diversa urge intorno;
cerco e non trovo e m’avvio
nell’incessante suo moto:
a secondarlo par uso o ventura,
ma dentro fa paura.
Perde, chi scruta,
l’irrevocabil presente;
né i melliflui abbandoni
né l’oblioso incanto
dell’ora il ferreo battito concede.
E quando per cingerti lo balzo
-’ sirena del tempo -
un morso appéna e una ciocca ho di te:
o non ghermita fuggì, e senza grido
nei pensiero ti uccido
è nell’atto mi annego.
Se a me fusto è l’eterno,
fronda la storia e patria il fiore,
pur vorrei maturar da radice
la mia linfa nel vivido tutto
e con alterno vigore felice
suggere il sole e prodigar il frutto;
vorrei palesasse il mio cuore
nei suo ritmo l’umano destino,
e che voi diveniste – veggente
passione del mondo,
bella gagliarda bontà -
l’aria di chi respira
mentre rinchiuso in sua fatica va.
Qui nasce, qui muore i! Mio canto:
e parrà forse vano
accordo solitario;
ma tu che ascolti, recalo
al tuo bene e al tuo male;
e non ti sarà oscuro.
Clemente Rebora
***