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Un libro e una collana: Andrea Longega e Il ponte del sale

Da Narcyso

Andrea Longega, Finìo de zogàr, Il ponte del sale 2012

Un libro e una collana: Andrea Longega e Il ponte del sale
 La collana “La porta delle lingue” dell’associazione IL PONTE DEL SALE, si caratterizza per una sua specificità: innanzitutto è una collana, e non un’ammucchiata di manoscritti più o meno “editi”.

  E’ assai sensibile all’idea di una koinè linguistica, in cui italiano e dialetti coesistano in quanto lingue portatrici di cultura ed espressività. Ma è anche una collana capace di accogliere  sperimentazioni, senza mai mettere in discussione, però,  le esigenze di una comunicazione capace di investire il lettore di senso, di lingua condivisa:. “voglio farmi capire”, mi  dice in una conversazione privata uno degli autori di questa collana.

  Leggendo i titoli, si ha quindi l’impressione del desiderio di accarezzare un progetto, non basato solamente sul prezioso investimento della qualità, aspetto a cui ogni buon editore non dovrebbe mai rinunciare, ma sulla ricerca di affinità interne alle lingue: lingue giovani, a volte, spesso opere prime: Horse category, di Sebastiano Gatto; Migratorie sono le vie degli uccelli, di Fernanda Ferraresso; Sofegòn carogna, di Maurizio Casagrande.

  Lingue della maturita’: l’importante Mistral, di Ida Vallerugo; Un pennino di stagno, di Giuseppe Bevilacqua; Quando sarà stato l’addio, di Luigi Bressan; Maliborghi, di Luciano Caniato; il bellissimo Seguiamo e accarezziamo, di un autore appartatissimo come Marco Molinari.

  Lingue comunque tutte radicate in un’idea di paesaggio, di humus antropologico: alcune provenienti da un microcontesto linguistico,  quasi ad indicare chiaramente le linee di un progetto culturale non generalizzato, in cui l’idea di paesaggio è concretissima descrizione dei luoghi, dei fili sottilissimi che intrecciano parole e cose: penso a Ditta al Farabi di Giselda Pontesilli, a Marine e altri sortilegi di Pasquale Di Palmo.

 
Titoli bellissimi, quindi, fino a questo Finìo de zogàr, di Andrea Longega, lettura ad alto tasso di commozione – ogni tanto si può dire -  che Vivian Lamarque così  presenta:

” Il suo canzoniere in memoria della madre appena morta ha suscitato l’ ammirazione di molti (…). Il colore di queste poesie è il bianco. Bianchi gli asciugamani, le lenzuola, le federe, le canottiere, le “camise strete”, le caviglie sotto il “segno de i calzéti”, le suore, le loro mani, le loro “scufiéte leziere come garza”, bianche “le veciéte, tute bele, cambiae”, bianchi i vialetti, gli archi dei chiostri, i gessi dei giochi dei bambini, i marmi ai bordi delle rive, la neve là fuori. Ma il guardare di Longega è anche un “vardar dentro”, un ascoltare profondo”…

Più che nota critica, prosa empatica, che  vuole cogliere le somiglianze tra l’ esperienza del lettore e quella del poeta, rese possibili per l’adozione di un  registro dolce e basso in cui il racconto si fa descrizione di fatti minimi, di immagini impresse nel ricordo come fotografie nitidissime, tanto che la realtà per avvenimento naturale e non per progetto, ci regala metafore semplici per conoscerci meglio e forse per capirci un poco.

  Colpisce in questo libro l’uso di una lingua bassa e scarnificata fino all’osso: “Il veneziano (…) è quello parlato dalla mia generazione. Come tale accoglie molte semplificazione e italianizzazioni, tuttavia conserva ancora molte memorie del passato, di molti termini e modi di dire sentiti e assimilati da genitori e nonni”, (l’autore in una nota).

  Questa semplificazione è forse la maggior resa stilistica del libro in quanto permette lo svelamento, il dire senza la maschera, spesso asfissiante, della forma; ma anche la dolcezza del parlato si sposa perfettamente con le evocazioni delle immagini della madre, vista nello sfiorire dei vecchi, persino nello schiarirsi della pelle e nella trasparenza degli occhi, per quell’estremo abbandono che abitano le persone anziane, ormai distanti dal clamore e dal turgore della giovinezza. Per esempio in questo testo disarmante:

Te vardo venir vanti

to marìo  a brasso

sul pavimento lustro de linoeum

la vestaglia grigia

i cavéi mèzi

senza tinta.

A ogni porta

ti buti l’ocio dentro

fin quando ti te inacorzi de mi

in fondo al coridoio

e ti me ridi

come par strada.

p. 34

  Ma c’e’ anche, in questo sfiorire, quell’insistenza della vita a voler essere ancora, nella luce lievissima dei fiori appena scoloriti, eppure dolcemente vivi, per la promessa di un’altra vita più silenziosa, più discreta, tra le pagine di un libro.

  Queste poesie dicono ai poeti e alla poesia, di buttare finalmente la zavorra, di ripartire da una stagione della vita in cui non abbiamo più niente da perdere,  in cui le parole diventano più esigenti e le motivazioni della nostra arte più stringenti.

  Fine dei giochi. Avvento dell’amaro, o malinconico disincanto della vita e della parola.

Sebastiano Aglieco

 *

 La soferenza xe una sola.

Nei giovani, nei vèci

nei maschi e nele fémene.

Gavemo tuti el stesso viso

in un lèto de ospeàl.

*

Anca dal to balcon se vede un albero

ma no come el mio a Padova

un pin tuto storto e fermo

in mèzo a un lago de cemento.

El tuo xe un albero fortunà

con tute le fogie verdi che se mòve

al fredo de Novembre

e tuto intorno i muri

de piere rosse e i archi

bianchi del chiostro.

*

A la sera Ricardo me consola

ma no ‘l sèra porte – le spalanca

co polso fermo e sentimento

el me mostra tuti i cantòni

de la casa, el me dise:

“varda qua e qua e qua sòto”.

*

Co ti tien i oci serài

te vardo tuto el viso.

Continuo a vardarte

tuto el viso.

*

Xe cussì semplice

nasser e morir

che tuto el resto me par

inutilmente complicà.

Quelo che xe belo

xe anca semplice,

natural. Mi no vedo altro

de tanto giusto

quanto el nasser e ‘l morir

e che finissa tuto qua.

*

Ti che par telefono ti sigavi

desso ti me disi ciao amore

co un filo de vòse.


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