COSA SI FA CON UN LIBRO?
Il ciclo di incontri Cosa si fa con un libro? dedicato ai protagonisti della filiera libro, si è concluso il 7 maggio con lo scrittore Paolo Di Paolo.
Prima di lui abbiamo incontrato il libraio Marco Guerra di Pagina 348, l’artigiano dell’editoria Leonardo Luccone di Oblique, l’art director e graphic designer Maurizio Ceccato di Ifix, lo scrittore Davide Orecchio e l’editrice di Ponte33 Bianca Maria Filippini.
Li ringraziamo tutti per avere accettato con entusiasmo di partecipare. Un grazie lo rivolgiamo anche a Claudio Bocci, presidente di Altrevie, che ha voluto inserire la nostra iniziativa nel fitto programma dell’associazione, mettendo a disposizione la propria sede di Via Caffaro 10. E ringraziamo in particolare il pubblico di assidui e attenti ascoltatori che si è avvicendato da un incontro all’altro.
di Lorena Bruno
Paolo Di Paolo, prezioso interlocutore della serata, è un giovane autore poliedrico. Ha esordito nel 2004 a soli vent’anni con la raccolta di racconti Nuovi cieli, nuove carte (Empirìa), ha curato libri di interviste come Un piccolo grande Novecento (Manni) con Antonio Debenedetti, ha scritto romanzi come Mandami tanta vita (Feltrinelli), finalista al Premio Strega 2013, ha scritto per il teatro e la televisione e collabora come critico letterario con note testate italiane. Con lui abbiamo indagato il tema della scrittura, l’importanza della lettura e della sua promozione, il ruolo del Premio Strega, il rapporto con gli editori.Perché si scrive? «È una delle domande più preoccupanti, cui comunque si è tenuti a rispondere. Bisogna essere consapevoli del perché si scrive. Io lo faccio perché sin da piccolo scrivere era l’attività in cui mi sentivo più a mio agio. Certo, il fatto che venga istintivo scrivere non vuol dire essere scrittori. Si può scrivere solo per sé stessi – la scrittura ha un ruolo terapeutico – ma io non ho mai scritto solo per me. Da piccolo scrivevo per far ridere la mia maestra, ad esempio; avevo uno stile divertente che poi è scivolato verso uno più pensoso. Aspetto una reazione da chi mi legge, cerco di immaginare le persone che spenderanno giorni o qualche ora per leggermi. La mia scrittura è interlocuzione, se non ci fosse un ritorno non scriverei. E poi attraverso la scrittura cerco delle risposte o pongo delle domande che possono restano aperte. Tutto comincia da una domanda, prima ancora di iniziare a scrivere. Ammiro chi sa creare storie, io sono sempre partito da un’esperienza vissuta in prima persona».
Racconti, sceneggiature, romanzi: la motivazione è sempre stata la stessa? «C’è anche una motivazione “alimentare”, non si può vivere di narrativa. Non ho un secondo lavoro, ed è una cosa importante, ma non mi scalda scrivere per la televisione o per i giornali. Se scrivo un articolo posso farlo in treno, in mezzo alla gente, ma se devo scrivere narrativa ho bisogno di un grande silenzio. Ho sempre scritto in seguito a un input, che fosse un tema, una commissione o una domanda… Faccio molta fatica a rileggere quello che ho scritto, ci sarebbero troppe cose da cambiare, correggere o censurare. Mi viene in mente una frase di Rilke: «Bisognerebbe scrivere un libro solo, alla fine della vita».
Quali sono le domande all’origine dei tuoi libri? «Per esempio quale rapporto c’è tra la nostra vita privata e quella pubblica, cioè tra quello che siamo intimamente e il periodo in cui viviamo. Quanto può influire su di noi un determinato momento storico? Ognuno è il risultato di questo rapporto, di cui però è difficile individuare che cosa abbia inciso in particolare. Sono queste le domande all’origine di Mandami tanta vita, che parla di Piero Gobetti. La sua è stata certamente un’esperienza intellettuale senza precedenti, se pensiamo che tra i 17 e i 24 anni, tra la fine della Prima guerra mondiale e l’avvento del fascismo fondò e diresse tre riviste che diedero un apporto culturale importantissimo per quegli anni».
L’editoria è in crisi, ma non sembra esserci una crisi dello scrittore. Quali possono essere le motivazioni di chi sceglie il self publishing ? «Bisogna comprendere l’esigenza di scrivere e il suo valore terapeutico, senza liquidare queste cose con disprezzo. In questo periodo c’è uno scollamento tra la lettura e la scrittura. Tutti pensano di saper scrivere, ma quella senza lettura è una scrittura cieca, vacua. Lo scrittore consapevole è l’unico che può sopravvivere al tempo e che può diventare insostituibile. Tra l’altro per chi scrive e si autopubblica si alimenta un meccanismo d’illusione: si evita la mediazione della casa editrice, ma a fare così si diventa presto una goccia nel mare. Ciò che resta è la riconoscibilità dello stile di un autore e per raggiungere questo obiettivo bisogna avere consapevolezza, che deriva solo dalla lettura. Subissato dalle proposte, succede anche che l’editore monitori la rete per vedere se c’è un libro che abbia già attirato attenzione, si monitora una reazione che è di per sé una prova importante».
La lettura è in crisi quindi bisogna promuovere la lettura? «Non si leggono molti libri, ma è anche vero che non se ne sono mai letti tanti. L’accesso alla cultura è maggiore rispetto a trent’anni fa, ma bisogna cambiare la promozione della lettura. Ho partecipato a #ioleggoperché, non volevo sottrarmi a un’iniziativa che promuovesse la lettura, ma credo sia importante cosa si legge, non il perché. È più coinvolgente parlare dei testi che ci appassionano, come ho avuto modo di sperimentare andando a parlare di libri nelle scuole, che parlare di quanto sia bello leggere in astratto».
Cosa si può fare per risolvere il problema e incentivare la lettura nel modo giusto? «Bisognerebbe capire perché molti non leggono e se questo sia un problema. A mio avviso sì, come anche ritenere che il romanzo sia l’unica lettura possibile. Bisogna tutelare la bibliodiversità: leggere romanzi è importante, ma anche leggere la saggistica lo è. Foster Wallace diceva: «È bello mangiare caramelle, ma se mangi solo quelle finirai per morire». La lettura coincide con l’informazione e con l’esercizio della propria lingua. A volte a chi non legge mancano le parole per far valere le proprie idee. In una classe mi è capitato di parlarne e i ragazzi erano sostanzialmente d’accordo sul fatto che a volte non riuscissero ad affermare la propria opinione perché non sapevano come esprimerla al meglio. Allora ho detto: «Non riuscirete a far valere il vostro pensiero senza la lettura». Ho molto rispetto per il mestiere degli insegnanti, non sopporto che gli si attribuisca tutta la colpa delle lacune del sistema scolastico, ma credo che molti di loro abbiano bisogno di un contatto più fresco con la letteratura contemporanea, a volte sembra che tutto si sia fermato a Calvino.
Da quali narrazioni nasce il tuo amore per la narrazione? «In un libro cerco la forza del racconto e una lingua che sia unica, che sia propria solo di quell’autore. Mi hanno sicuramente influenzato i testi di Giacomo Leopardi prosatore, in particolare gli appunti su alcuni argomenti di cui avrebbe voluto scrivere, in una lingua lirica ed evocativa e una vaghezza tutta leopardiana. Anche Antonio Tabucchi, a cominciare dal suo Sostiene Pereira, mi ha influenzato molto. È stato importantissimo lavorare con lui».
Premio Strega: dalla tua esperienza di finalista nel 2013 a oggi, con la candidatura molto discussa di Elena Ferrante, c’è stata un’evoluzione? «Su Elena Ferrante ho detto abbastanza, non amo la sua tetralogia, preferisco i suoi primi romanzi come I giorni dell’abbandono. Rispetto chi la stima come autrice, ma non sono d’accordo sulla sua invisibilità, mi sembra un’operazione di marketing. Quanto al premio Strega, ho detto più volte che il fatto di aver pubblicato con Feltrinelli mi ha permesso di essere finalista. Quando nacque il Premio con Maria Bellonci e Guido Alberti nel 1947, le intenzioni erano pure, disinteressate. Dagli anni ’90 in poi è cambiato tutto radicalmente. Bisogna comunque riconoscere che Tullio De Mauro ha reso il sistema di votazione più trasparente. Poi non c’è dubbio: lo Strega serve a vendere e a dare visibilità anche ad autori che altrimenti non ne avrebbero così tanta».
Hai pubblicato con piccoli editori (Empirìa, Perrone) e grandi (Feltrinelli, Bompiani). Com’è il tuo rapporto con gli editori? «Le case editrici minori garantiscono un rapporto più diretto con l’autore, elastico, mentre quelle maggiori hanno un rapporto più rigido, a tratti algido. Per me è fondamentale avere un rapporto umano con l’editor. Lavoro molto bene con Alberto Rollo, direttore letterario di Feltrinelli. È una persona straordinaria. Non ha mai cambiato una singola riga, ma mi dà sempre suggerimenti e spunti di riflessione importantissimi. L’editor deve rispettare la creatività sapendo come guidarla nel modo giusto, deve saper porre questioni senza risolverle in prima persona».