servizio giosuè del fiume
foto (calcio balilla) diego jadranska
Un tempo c’era la maratona del mercoledì, il famoso “mercoledì di coppa”. Era una grande festa, per chi poteva restare 8 ore avanti alla TV.
Una TV non a led, ovviamente. Il “bello” del mercoledì di coppa risiedeva nei luoghi delle trasferte delle squadre italiane, specie nei primi turni: luoghi esotici, squadre con stadi sulle coste dell’Islanda o della Norvegia, sperdute città dell’URSS. Insomma: era l’apoteosi del “fascino dello straniero”. Ovvio, la normalità del campionato non era da meno: tutte le partite si giocavano contemporaneamente, tutte di domenica pomeriggio, qualsiasi fosse la serie. Si andava a seguire le dirette radio (esclusivamente radio) in auto con gli amici, oppure allo stadio, tenendo la radiolina all’orecchio durante la partita della squadra di casa. E poi, tutti di corsa a sintonizzarsi su RAI (c’era solo un canale RAI!) per non perdersi neanche un minuto di… 90° minuto, con Paolo Valenti. I costi di questo mondo arcaico? Biglietto d’ingresso allo stadio, rigorosamente in curva o al massimo nei distinti, militari e ragazzi a metà prezzo, donne gratis, tranne che per le partite importanti. Lo stadio era un appuntamento per famiglie, amici... era un luogo per tutti. Non dimentichiamoci che nella tragedia dello stadio Heisel, avvenuta il 29 maggio 1985, finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool, 39 morti di cui 32 italiani, allo stadio c’erano le famiglie. Almeno gli italiani erano giunti lì con le famiglie. E al tempo, un “must-have” era il gagliardetto della squadra, o la sciarpetta. Le informazioni ed i gossip sportivi erano quelli sulla Gazzetta dello Sport, o al bar sotto casa. Al Bar dello Sport. Fuori dal calcio giocato e discusso, c’era il bello dei giochi relativi al pallone: calcio balilla, Subbuteo, la partitella tra amici ogni domenica, nei campi di quartiere, o nei piccoli tornei locali. Insomma: costi minimi e tanto sorridere, tanto correre, tanto sognare. Il calcio era passione pura, era solo passione, e nelle squadre, anche in quelle maggiori, c’erano le “bandiere”: nomi di calciatori che sposavano la maglia fino all’ultimo calcio. Certo, tutto questo accadeva perché c’erano valori diversi in campo, e parlo di valori economici: l’acquisto del cartellino di un atleta era spesso un valore misto in denaro e posto di lavoro assicurato nella fabbrica dello sponsor, a fine carriera. Se i guadagni per i calciatori non erano eccezionali, per i tifosi il “rischio” di guadagnare qualcosa era solo nel gioco della SISAL… ooops: Totocalcio! Il massimo del montepremi con un 13? 5 miliardi e mezzo, nel 1993. Ah: parliamo di lire, non di euro… in euro è una miseria (si fa per dire). Poi, qualcosa è cambiato.
Piano piano. Arrivava sempre più forte l’eco delle scommesse dall’Inghilterra, ma in Italia erano illegali. Però il calcio piaceva, e molto, e così ecco la moda del calcio a 5 sui campetti privati. È bello, è sport, è salutare, e si crea un nuovo business: completi da calcio dei team di serie A e squadre nazionali. Anche la TV fa la sua parte: ormai è di casa in ogni famiglia, e i canali televisivi aumentano. Maggiori canali, maggiore concorrenza, e quindi serve mandare in onda qualcosa che “prenda”, che catalizzi l’attenzione. Ed ecco un fiorire di trasmissioni sul calcio: in poche parole, dopo il “Processo del Lunedì”, ecco infiniti appelli e contro-appelli del martedì! E da qui, il calcio si “rovina”. Nascono i videogame sul calcio. Il calcio diventa un business per l’intrattenimento digitale: come non ricordare nomi assoluti come “Kick Off” e “Player Manager”, del grandissimo autore Dino Dini, pietre miliari del calcio al PC prima dell’avvento di FIFA e Pro Evolution Soccer. Diviene business, e segue il business delle trasmissioni a tema calcio. Infinite. Per catalizzare l’attenzione mediatica dei telespettatori, oltre alle discussioni calcistiche, seguono le “gambe” delle donne, le “gambe” delle conduttrici, dalla Parietti in poi. Chi non ricorda le notti mondiali del 1994, con Valeria Marini ed Alba Parietti? Oggi su alcune reti locali si possono ammirare esemplari femminili degni di un bordello thailandese, ormai. Vi invito a sintonizzarvi sull’emittente meridionale Telenorba, la domenica. Ma andiamo oltre: TV a go-go, videogame, violenza negli stadi. Il calcio è ormai un palcoscenico mediatico, e “i violenti” italiani, seguono quelli inglesi, i famosi hooligans. Ma mentre in Inghilterra le istituzioni “vogliono” risolvere il problema, in Italia solo negli ultimi anni giungiamo all’idea di una tessera riservata ai tifosi, ad una schedatura. Insomma: alla tutela dei veri tifosi. La violenza negli stadi si accompagna al maggior clamore mediatico dettato dal calcio: la TV è ormai padrona dello sport, e le partite in diretta sono un bell’affare, sia per gli sponsor a bordo campo, sia gli spot durante le partite. Così, il vero denaro irrompe nel calcio: nomi famosi portano a riscontri maggiori, portano ad aumentare gli ingaggi dei calciatori, portano a far perdere le “bandiere” in ragione del maggior guadagno. A ciò si aggiunge la famosa “sentenza Bosman” del 1995, grazie alla quale i calciatori residenti nella CE possono “volare” di club in club senza limitazioni. Così, grazie ad un calcio-mercato sempre aperto, non è assurdo che uno stesso calciatore giochi l’inizio di campionato in un team, il periodo invernale in un altro, e la chiusura in un terzo. Insomma: ogni partita ormai ha storia a sé, e non conta nulla il fattore appartenenza ad una storia. Di pari passo, il Totocalcio perde valore, soppiantato dai premi milionari (in euro) di SuperEnalotto, o dal gioco “mirato” delle scommesse. Nascono i raduni non più al “Bar Sport”, ma alla SNAI o ad altri centri per scommesse, dove una “accoppiata secca” diventa un mito tale da entrare in una canzone della celeberrima band 883. Ormai, il calcio lo si vede in solo TV: il posticipo serale, l’anticipo di serie B, e ben presto la divisione completa delle partite, con anticipi, varie dirette durante la domenica di campionato, posticipi vari. Non esiste più una classifica simultanea, ma una classifica ad asterischi. Il bello del gioco si sacrifica sempre più all’altare degli interessi della pay-TV. Stessa cosa vale per le coppe: si gioca il martedì, il mercoledì, il giovedì: si è giunti alla soppressione di un torneo (la Coppa delle Coppe), per “potenziare” l’interesse sulla ormai importantissima “Champions League”. Il resto non esiste. Eccoci giunti al punto: i diritti televisivi sono ormai costosissimi, la TV trasmette calcio “a pagamento” e non più in chiaro, non più “per tutti”. Quello che era il gioco del popolo, oggi non si nutre più di Subbuteo e “giochi poveri”, ma vive di videogame costosi, di partite a calcetto su campetti realizzati meglio di San Siro, di maglie supertecnologiche.
Allo stadio non ci si va più, un po’ per il rischio “rissa”, un po’ perché la poltrona di casa con dolby surround e schermo da 42” è meglio della realtà. Si è giunti a casi limite, quali l’Inter, in grado di mandare in campo ben 11 calciatori stranieri su 11: nessun italiano a rappresentare uno dei club più titolati del nostro calcio. Questo è il calcio moderno, il calcio di proprietà di Sky o Premium, il calcio esasperato degli atleti dopati, degli amori con le veline, dei “piccoli aspiranti” pronti ad azzuffarsi sui campetti di quartiere, protetti dai loro padri, perché “arrivare al contratto è più importante che studiare”. Insomma, questo è il calcio oggi: nessuna umiltà, niente belle parole piene di vita alla Enzo Bearzot [il c.t. della nazionale italiana campione del mondo nel 1982, ndr], il calcio dei magnati russi che comprano intere società sportive. In questo mondo consumistico, dove non ha senso innamorarsi di un calciatore, perché tanto dopo pochi mesi cambierà casacca (chi non prende in giro il voltagabbana Ibrahimovic?), esistono troppe realtà “malate”, e per fortuna, qualche realtà “sana”. Un esempio è la storia dello Shamrock Ravers, la prima squadra irlandese ad accedere alla fase a gironi di un importante torneo Uefa, la Europa League. Certo, ha preso subito tre pappine, ma la morale non cambia. Anche perché solo pochi anni fa lo Shamrock sembrava avere i giorni contati: la prima retrocessione, i conti in disordine e uno stadio atteso da circa 20 anni e che non arrivava mai. È a questo punto che entrano in gioco i tifosi, che fondano il loro trust, si comprano la società e pongono le basi per un nuovo calcio partecipato e democratico, dove tutti hanno una testa sulle spalle, e ogni testa vale un voto. E pochi anni dopo eccoli lì, a firmare il debutto europeo del calcio irlandese. Che i tifosi se la cavino bene a gestire i club lo hanno dimostrato anche quelli dell’AFC Wimbledon. La storia era iniziata una decina di anni fa, quando la Football Association diede il via libera alla prima operazione di Franchising nella storia del calcio inglese: il Wimbledon FC si sarebbe stabilito a Milton Keynes, a circa 100 chilometri di distanza, e dove c’era il vecchio stadio si sarebbe costruita una nuova zona residenziale per giovani yuppies londinesi. Dopo un anno di proteste, i tifosi decidono di prendere il toro per le corna e di ri-fondare la loro società da zero. Ognuno da il suo contributo concreto: c’è chi pulisce la struttura, chi si occupa della sicurezza, chi del merchandising, anche i manager sono semplici tifosi. Ripartono da una serie che è l’equivalente della nostra seconda categoria, ma gli spettatori sono sempre diverse migliaia, e quando vanno in trasferta si ritrovano a seguire le partite seduti sulle balle di fieno che circondano i campetti amatoriali degli avversari. Dopo 9 anni di purgatorio l’anno scorso si sono guadagnati il ritorno nel calcio professionistico. Certo, in Italia ha fatto storia a sé la saga degli Agnelli, con il mitico “avvocato” restato nell’immaginario collettivo per la grande eleganze dei suoi commenti. Oggi, l’erede Andrea Agnelli, dichiara "Cambieremo il calcio italiano", nel corso dell'assemblea degli azionisti della Juventus. Eh, si: oggi alcune squadre non sono più “squadre di proprietà”, ma società per azioni. Durante l’ultima assemblea, il rampollo Agnelli parla di un “calcio italiano malato”, e ricorda che "L'Italia nel 1997 era prima nel ranking UEFA e seconda per numero di spettatori allo stadio e per fatturato. Oggi siamo quarti: Inghilterra, Spagna e Germania si stanno distanziando e presto Francia e Portogallo li seguiranno". Per migliorare la situazione, è pur giusto gestire i team in maniera “professionale”, ma è giusto anche riprendere in mano la passione che un tempo animava le folle. Sarà dura far “calare” il fenomeno calcio, o (meglio) riportarlo a ritmi veri e terreni. 20 squadre in serie A, partite di coppa europea e partite di coppa nazionale (che però, almeno per questa ultima citata, non segue nessuno), partite della nazionale: i calciatori si “rompono” spesso, sono ormai trattati come “macchine”. C’è inflazione, ed il calcio è una droga per alcuni telespettatori, mentre per altri ormai ha perso ogni interesse, visto che non tutti amano la pay-TV. Si potrà mai pensare ad una domenica del calcio, come un tempo? A campionati più brevi e avvincenti, a calciatori “bandiera”, come un tempo? In nome del denaro, si è persa la passione, e se non la si è persa del tutto, poco manca.