(Vincent Van Gogh: Campo di grano con cipressi, 1889)
Gli dissero di restare sulla soglia, ma era superfluo, perché Jacob conosceva le regole.
Un uomo alto accanto alla finestra dava le spalle alla stanza e guardava fuori, ma anche questo era superfluo dato che non c’era altro da vedere che il grigio del muro di fronte.
L’altro uomo prese un foglio dalla scrivania e lo diede a Jacob:
“Metti una croce qui”.
“So scrivere – mormorò Jacob, e firmò per esteso, lentamente, le dita troppo gonfie e indurite per condurre bene la penna.
Poi gli sbatterono sul petto un fagotto e un altro pezzo di carta:
“Le tue cose. E il lasciapassare”.
La porta si richiuse. Non ci furono saluti, e del resto nulla sarebbe stato più superfluo. Per tutto il tempo, l’uomo alto non si era mai girato e non aveva aperto bocca. Jacob si incamminò lungo il corridoio, nella direzione opposta a quella da cui era venuto.
La strada era una cicatrice di fanghiglia gelata nella vastità della neve. Tutt’intorno solo bianco e piatto a perdita d’occhio; e il colore del cielo era di un bianco solo un po’ più sporco. Il freddo non poteva nemmeno essere descritto, era il padrone di quel mondo, era l’unica condizione conosciuta, e in quanto tale, cioè ineluttabile, Jacob aveva imparato a domarla. Era lui stesso parte di quel gelo. Camminavano insieme.
Per verificare il contenuto del fagotto, attese di essere abbastanza inoltrato nel cammino da non rischiare di essere spiato da qualche torretta. La sua dignità glielo imponeva. Frugò tra gli stracci e vide subito che non era roba sua: forse era appartenuta a qualcun altro che era morto. Avvolto in un brandello di lana scoprì un frammento di sapone. Non c’erano né il suo orologio, né i soldi, né le scarpe foderate di pelo. Si chiese se avesse mai posseduto veramente tutto ciò, o se fosse solo un falso ricordo generato nelle notti insonni. Ripiegò gli stracci e decise di accettarli in memoria di quel morto senza nome cui non sarebbero più serviti.
Sul foglio c’era scritto che poteva viaggiare su un treno senza pagare il biglietto. Validità quindici giorni. C’erano anche altre cose scritte sul foglio, sigle e timbri rossi e blu. C’era il suo nome e la data del giorno. La fissò a lungo, perché era un mistero che solo ora gli si svelava. Ripiegò anche il foglio e lo seppellì in tasca.
La città distava forse una trentina di chilometri. Cominciò a intravederne il profilo irregolare verso metà giornata. Lungo la strada non aveva incontrato nessuno, non aveva avvertito alcun odore né veduto alcuna forma di vita. Entrò in città da un quartiere di stamberghe grigie, dove la neve si scioglieva in rigagnoli scuri. Incrociò gente taciturna e miserabile, che non si voltava a guardarlo. Di molti non avrebbe saputo dire se fossero uomini o donne, giovani o vecchi. Anche loro, come lui, erano coperti di pastrani dimessi, rattoppati, insufficienti; anche loro, come lui, probabilmente non li toglievano nemmeno per dormire. Il fumo che usciva da rari camini aveva uno strano odore, certo non buono, certo non di legna.
Si addentrò nella città cercando la stazione. Era una stanza puzzolente dal pavimento lurido; in un angolo, un gruppo di mendicanti attorniava un braciere avaro. Dietro il vetro giallastro dello sportello, un giovane rivoluzionario strava leggendo un librone. Jacob gli chiese quando sarebbe passato il prossimo treno.
“Dove devi andare? – gli chiese a sua volta il ragazzo.
Jacob glielo disse, ma l’altro non riconobbe il nome. Jacob citò altre località vicine, ma anche queste suonarono sconosciute al giovane. Erano i posti dove era nato e cresciuto, dove aveva prima studiato e poi insegnato a sua volta. Ora pareva non esistessero più, non fossero mai esistiti. O forse, semplicemente, avevano cambiato nome.
“Voglio andare a sud – decise Jacob.
“La linea va da est a ovest. Niente sud”.
“A est cosa c’è?”
“A est non c’è niente. C’è il confine”.
“Allora andrò a ovest. Quando passa il treno per andare a ovest?”
“Non lo sappiamo. Potrebbe essere domani, o fra una settimana. Tu prova a tornare qua ogni tanto. Hai un lasciapassare, suppongo”.
Jacob ripensò a quel foglio stropicciato con quelle sigle lugubri, quei timbri minacciosi, e rispose di no.
“Allora la prossima volta porta i soldi per il biglietto – lo ammonì il giovane, guardandolo con un ghigno cattivo. Aveva capito.
Tutte le mattine tornava a chiedere notizie. Non ne otteneva. Allora usciva nelle strade in cerca di cibo e denaro. Il primo giorno si accodò a una fila di diseredati che attendevano una ciotola di minestra davanti a una caserma diroccata. Jacob ebbe la sua razione; la allungò con un pugno di neve per farla durare più a lungo, e il tozzo di pane lo infilò sotto la maglia per conservarlo. Non mangiava da ventiquattr’ore. Si preparava a mangiare poco o nulla per chissà quanto, tutto il tempo che sarebbe durato il viaggio.
In un camposanto dalle antiche lapidi divelte c’erano dei morti da seppellire, ma il terreno era troppo ghiacciato. Jacob offrì le proprie braccia per un po’ di cibo, e in tre giorni scavò le fosse necessarie.
“Sei forte – gli disse il becchino.
Un vecchio con un braccio amputato non riusciva a riparare la porta della sua casupola. Jacob barattò mezza giornata di lavoro con due cipolle.
“Ci sai fare – gli disse il vecchio.
Appena fuori dall’abitato stavano lavorando a un ponte pericolante.
“Non assumiamo nessuno – lo avvertirono ringhiando.
“Non voglio soldi – disse lui – Mi basta qualcosa da mangiare”.
Sapeva fare tutto, spaccare pietre, costruire muri, trasportare pesi. Mangiava lentamente minestre allungate con la neve, e nascondeva il pane secco sotto gli stracci che lo coprivano. Faceva così provviste per il viaggio su quel treno che non arrivava mai. Gli mancava un acciarino, e questa divenne la sua principale ossessione. La notte dormiva nella stanza puzzolente della stazione insieme ai mendicanti, tutti nell’illusione che il braciere spento rilasciasse ancora un impercettibile tepore; dormiva con un occhio solo per non mancare l’eventuale passaggio di un treno, e intanto pensava a quell’acciarino che non aveva.
Lo ottenne in cambio delle strisce lise di pelo tarmato che staccò, con cupa pazienza, dal collo, dai polsi e dall’orlo del pastrano.
Scavava nei pressi della ferrovia in cerca di radici tra la neve sporca quando udì avvicinarsi un treno.
Lo scorse snodarsi in lontananza lungo una curva ampia, con la colonna di fumo ardesia contro il grigio appena più chiaro del cielo. Quando fu più vicino si accorse che era un convoglio merci dai carri sgangherati e coperti di ruggine e fuliggine. Procedeva lentamente, ma la direzione era quella giusta: ovest.
Jacob si nascose sotto il terrapieno e attese che l’ultimo vagone gli passasse accanto prima di saltarci sopra. Era vuoto, ma aveva trasportato bestiame, e negli angoli era ammonticchiata un po’ di paglia. Il portellone non chiudeva bene, ma perlomeno c’era un tetto sopra la testa. E in ogni caso lì dentro non poteva fare più freddo di fuori.
Dalle fessure Jacob scrutava il paesaggio, sempre uguale, a destra e a sinistra: un deserto plumbeo di neve, inabitato e inabitabile. Di giorno spiava se vi fossero cambiamenti, se apparisse qualche villaggio; di notte nel buio profondo non vide mai accendersi alcuna fiammella, neppure lontana.
La terza o quarta mattina apparvero delle ombre livide all’orizzonte, e l’arrancare del convoglio sembrò rallentare. Si cominciava a salire; laggiù doveva esserci qualche immensa foresta, forse un passo tra alti monti.
Folate di vento spietato insinuavano negli interstizi lame di neve. Con essa si dissetava, e una volta al giorno inghiottiva qualche morso di pane rinsecchito. Dosava le riserve, non conoscendo la durata del viaggio, né la destinazione.
Una notte attraversarono un gruppo di case. Sembravano abbandonate. Una visione fugace sotto una luna altrettanto fugace, poi il buio e le nuvole ripresero le une e l’altra.
Ora dalle fessure si vedeva una foresta intrappolata nella neve, i cui alberi avevano fusti così alti da nascondere il grigiore del cielo. Tra i rami o accanto alle radici non c’erano frulli d’uccello né fruscii di animali. Un bosco impietrito in un gelo arcaico, muto e sinistro.
Di notte accendeva qualche filo di paglia con l’acciarino, ma temeva di morire congelato nel sonno, e per non addormentarsi ripeteva caparbiamente versi di Ovidio, di Puškin.
Di giorno regolava il tempo sullo sferragliare delle lamiere, pensando che se quel rumore si fosse fermato avrebbe cessato di battere anche il suo cuore.
La foresta pareva interminabile. Jacob dovette arrendersi all’evidenza che le sue provviste stavano finendo, e che la fame lo avrebbe messo nelle mani del freddo entro poco tempo. Sarebbe morto così, passando dal torpore al coma e all’assideramento in fondo a un carro bestiame nelle Terre del Diavolo. Non avrebbe più bevuto una tazza di tè bollente sulla veranda davanti al giardino, non avrebbe più suonato il pianoforte nel salottino di sua madre, né terminato di tradurre i suoi amati poeti.
Smise di scrutare dalle fessure. Cercò una posizione protetta in un angolo. Mangiò qualche scaglia di sapone, la sola risorsa rimasta. Accese l’ultimo ciuffo di paglia, e con esso bruciò anche il lasciapassare. Un’unica fiamma vivace e ingannevole li consumò in pochi istanti. Non si accorse di aver permesso ai suoi occhi di chiudersi.
I bambini, cinque o sei, tutti biondissimi, rincorrevano conigli selvatici lungo i binari, e ridevano gioiosi. Il lungo treno si era fermato sbuffando e alcuni uomini stavano caricando acqua e carbone dal serbatoio di rifornimento a lato della ferrovia.
Jacob emerse dal sopore avvertendo che qualcosa era cambiato nei rumori che lo avevano finora accompagnato. Ma non solo, anche nell’aria, e nel tipo di luce che entrava ora a fiotti dalle fessure. Si trascinò a quella più bassa, all’altezza dei suoi occhi, e restò abbagliato.
Fuori era un mare d’erba.
Un sole franco splendeva su una pianura ininterrotta e verdissima, punteggiata di ciliegi in fiore. Poco distante, alcune case basse con gonfi tetti di paglia. Jacob strizzò gli occhi offuscati e si lasciò scivolare lungo la breve scarpata, finendo tra i radi cespugli dove si era impigliato uno dei conigli. I loro occhi stupefatti si incrociarono. Jacob allungò le braccia e lo afferrò: era grasso, tiepido e mansueto. Si mise in piedi a fatica e mosse qualche passo verso i bambini, che si erano fermati e lo guardavano gentili e incuriositi.
“Grazie – disse la bambina più grande, prendendo il coniglio che Jacob le porgeva – Sai, scappano sempre”.
Jacob si guardò intorno, avvertì il tepore dell’aria e del sole sulla sua schiena, attraverso il pastrano incartapecorito e gli strati di stracci. Nella lunga notte della sua coscienza, il viaggio era proseguito e lo aveva traghettato dall’inferno di ghiacci alla vallata dei ciliegi. Si tolse le scarpe con gesti goffi e posò i piedi nudi su quella spiaggia neonata, violandone la verginità con un senso travolgente di stupore.
“Vieni da lontano? – gli chiese gentilmente la bambina.
“Molto lontano. Molto freddo – mormorò lui, riascoltando la propria voce dopo settimane.
“Allora sarai stanco. Vieni con noi – lo invitò lei tendendogli una manina.
Jacob la prese e si avviarono lungo un viottolo, verso le case. Ma le gambe cedettero molto presto, e lui rimase indietro: guardava i bimbi procedere a saltelli sui loro zoccoletti, mentre i suoi piedi scalzi si arrendevano. Cadde in ginocchio come un cavallo abbattuto.
Quando la bambina tornò insieme a due uomini e a una donna, lo trovarono accovacciato nell’erba.
Stava brucando.
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Questo racconto contiene qualcosa di verde e qualcosa di inespresso, e pertanto partecipa all’eds della Donna Camèl insieme a:
- Opera numero 1 di Angela
- La sciarpa di Michele