Condividi
Il ricchissimo fondale del Canale di Sicilia
In marzo di quest’anno avevamo già segnalato (Il Canale di Sicilia, un patrimonio di biodiversità) che, accanto ai confortanti risultati di un importante studio appena concluso sulla qualità del mediterraneo, “Biodiversità Canale di Sicilia” finanziato dal Ministero dell’Ambiente e svolto dall’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), si avvistavano all’orizzonte insidie legate al forte interesse, per le compagnie petrolifere, di trivellarne i fondali. Ricerca di petrolio, quindi, in un’area ricchissima di biodiversità appartenente a un mare chiuso come il nostro dove un incidente come quello accaduto nel Golfo del Messico avrebbe conseguenze ben peggiori.
Ma di questo poco si preoccupa il nostro governo che alla fine di maggio aveva già concesso 117 licenze di trivellazione, ben 25 delle quali in mare aperto che andrebbero ad aggiungere numerose piattaforme alle 9 già presenti. Nell’Adriatico settentrionale e nel mare davanti alle Marche, all’Abruzzo, alla Puglia, alla Sardegna cominceranno a breve le prime prospezioni e ben 12 nuove piattaforme verranno realizzate nel Canale di Sicilia. E come se non bastasse sono 39 le aree di mare per le quali è stata presentata istanza di ricerca, 21 sempre nel Canale di Sicilia.
Goletta Verde di Legambiente
L’allarme è lanciato da Legambiente che nel suo rapporto “Un mare di trivelle” sottolinea come questa corsa all’oro nero non abbia senso né dal punto di vista della produzione, visto che «secondo il Ministero dello Sviluppo economico le riserve stimate sono 187 milioni di tonnellate (di cui 11 a mare), che agli attuali tassi di consumo – che nel 2010 ammontavano a 73,2 milioni di tonnellate – verrebbero consumate in soli 30 mesi, cioè in 2 anni e mezzo», né dal punto di vista occupazionale se Assomineraria prevede la creazione di soli 34mila posti di lavoro, sicuramente inferiori a quelli che si ricaverebbero da investimenti in campo energetico sull’efficienza e sullo sviluppo delle energie rinnovabili.
Allora perché tanto interesse da parte delle società petrolifere, soprattutto straniere che rappresentano il 90% di quelle che hanno fatto richieste di estrazione? Semplice: estrarre petrolio in Italia conviene di più che nel resto del mondo, come le stesse compagnie ammettono con dichiarazioni ufficiali che possiamo leggere nel rapporto di Legambiente. Condizioni fiscali vantaggiose, canoni di concessione irrisori e, dulcis in fundo, «limiti molto meno restrittivi per quanto riguarda le missioni inquinanti derivanti dal trattamento degli idrocarburi».
Può bastare? Certo che no! Vere e proprie leggi ad trivellam sono state approvate e sono discussione in parlamento, dal provvedimento che consente prospezione ed estrazione di idrocarburi in mare nel il Golfo di Taranto a quello che dovrebbe, tra le altre cose, consentire la semplificazione dei procedimenti autorizzativi di competenza statale.
La lottizzazione senza scrupoli delle aree marine, anche quelle protette, continua.
pubblicato su Cronache Laiche