Magazine Europa
Eppure la mia conoscenza e la mia cultura sono tornate da Berlino accresciute. E dunque anche la mia visione del (vostro) mondo e, più in generale, la mia esperienza. Per cui senza dubbio oggi mi sento un individuo migliore. Nonostante ciò, non percepisco quel tipico sentimento post-vacanziero che è la nostalgia, il bisogno, l'impulso a volerci ritornare perché non ho visto tutto quello che volevo vedere e non ho fatto tutto quello che volevo fare. Nondimeno a Berlino ho visitato un sacco di posti assai stimolanti. Il Museo della Storia Tedesca, il Museo della DDR, il Museo del Muro, ho visto la Fernsehturm e Alexanderplatz, quel che resta di Checkpoint Charlie, gli avanzi del Muro e i viali immensi di Karl-Marx-Allee, le tipica urbanità granitiche di Berlino Est, e il look patinato di Berlino Ovest. Ed è ripercorrendo idealmente quello che ho visto e ho provato, che riesco finalmente a collegare punti distanti tra loro, e intuire così quel vago disegno di fondo, quella filigrana quasi invisibile, che mi spiega dove stavo sbagliando.
Non è indifferenza quella di Berlino. Non è sufficienza. Non è incompatibilità. È la reazione alla manifestazione di un dolore. Perché Berlino è una città ferita e la ferita ha la forma dei segni di un muro sull'asfalto. Una città che ancora oggi porta i segni di quasi un secolo di tormenti, di conflitti, di follie, di famiglie divise, di sogni spezzati. E molti di questi possono essere testimoniati non da pochi reduci ultraottantenni che si riuniscono una volta l'anno, ma dalla gente che incontri tutti giorni in metropolitana. Tutto questo, insomma, è recente e lo si vede dietro gli occhi delle persone che l'hanno vissuto. E allora stringe il cuore vedere la comparsa del soldato della DDR che, per qualche spicciolo, timbra veri visti su finti passaporti a beneficio del solito gregge di turisti belanti. Lui lo fa per sbarcare il lunario o pagarcisi qualche libro all'università. Lui, che magari è nato il giorno in cui il Muro è crollato, e suo papà e sua mamma quelle cose le hanno vissute sul serio. Come suo nonno, che ha visto le svastiche sventolare, e magari le aste di quelle bandiere le ha tenute in mano pure lui. È vero, è incomunicabilità, quella che ho sentito. L'incomunicabilità dell'angoscia, il rispetto muto e silenzioso per essa, il desiderio di leccarsi le ferite in disparte, l'isolamento del senso di colpa. È la difficoltà di incontrare e quindi di comprendere una città che ha vissuto - così di recente - qualcosa che non puoi veramente capire, se non ti sei distrutto le mani per cercare di buttare giù almeno un pezzo, anche piccolo, di quel maledetto Muro.
/continua
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