17 ottobre 2014 2 commenti
Io ero dietro, incastrato fra il pane rumeno, le salsicce di Vienna, le cassette di birra e di bibite. Portavo una cravatta verde: la prima cravatta, da quand’era morto mio padre, dieci anni prima. Adesso, era perché ero compare d’anello, a un matrimonio di rito Zen. Hollis guidava a 120 all’ora. La barbaccia di Roy, lunga tre metri, mi sbatteva sulla faccia, svolazzando. Viaggiavamo sulla mia auto, una Comet 62, solo ch’io non potevo guidare: m’avevan ritirato la patente, per ubriachezza. E poi ero già un po’ brillo. Hollis e Roy convivevano da circa tre anni. Lei manteneva Roy. Io sedevo di dietro e trincavo birra. Roy mi stava illustrando, a uno a uno, tutti i parenti della sposa. Roy era un uomo di penna. E di lingua. Le pareti, a casa loro, eran tappezzate di foto di sessantanove.
C’era anche un’istantanea di Roy che sborrava sparandosi una sega. Roy se l’era fatta da sé. Dico, con l’autoscatto. Un congegno di fili e pulsanti. Complicato, fattincasa. Roy diceva che gli era toccato spararsene sei, per ottenere l’effetto giusto. Una giornata intera di lavoro. Risultato: uno schizzo lattiginoso: un’opera d’arte. Hollis svoltò per immettersi nel vialetto d’accesso. Certe ville di ricchi ce l’han lungo anche un miglio. Quello non era male: quattrocento metri. Scendemmo. Un giardino con piante tropicali. Un quattro cinque cani. Enormi bestioni lanosi, bavosi, stupidi. Ci sbarrarono la strada. Il padrone di casa stava in piedi, sulla veranda, e ci guardava, con un bicchiere in mano. Roy gli gridò:
"Salve, Harvey, bastardo, piacere di vederti!" Harvey sorrise appena: "Piacere mio, Roy."
Uno dei cagnacci neri mi aveva azzannato una caviglia. "Chiamalo un po’, il tuo cane, Harvey, bastardo, piacere di vederti!" io gridai.
"Buono, Aristotile, smettila! cuccia!" Aristotile smise, giusto in tempo. Poi.
Cominciammo a carreggiare su per le scale i salsicciotti, il pescegatto ungherese in salamoia, i gamberi. Le aragoste, il bagel. Culi di piccione macinati.
Finiti i trasporti, mi sedetti e agguantai una birra. Ero l’unico in cravatta. Ero anche l’unico che aveva portato un regalo di nozze. Lo nascosi fra il muro e la caviglia rosicchiata da Aristotile.
"Charles Bukowski…" Mi alzai.
"Oh, Charles Bukowski!"
"Hm hm." Quindi:
"Questi è Marty."
"Salve, Marty."
"E questa è Elsie."
"Hellò, Elsie."
"Ma sul serio," mi chiese, "fracassi i mobili, rompi i vetri, ti tagliuzzi le mani, e così via, quando sei sbronzo?"
"Hm hm."
"Sei un po’ vecchio per ‘ste robe."
"Senti, Elsie, non mi rompere i coglioni…."
"E questa è Tina."
"Ciao, Tina." Mi sedetti.
Nomi! Ero sposato da due anni e mezzo con la mia prima moglie quando, una sera, arriva gente. Io attacco a presentarli: "Questi è Louis la mezzasega, questa è Maria la Regina dei Pompini, questi è, Nick il cazzabubbolo." e a loro gli dicevo: "Questa è mia moglie… questa è mia moglie… questa è…" Alla fine la guardo e gli fo, "Ma si può sapere COME CAZZO TI CHIAMI?"
"Barbara."
"Questa è Barbara," dissi agli amici…
Il maestro Zen non era ancora arrivata. Io seguitavo a trincare birra.
Arrivò dell’altra gente. Non finivano più. Tutti i parenti di Hollis. Roy invece era senza famiglia. Povero Roy. Non ha mai lavorato in vita sua. Stappai un’altra birra. Badavano a arrivare, su per le scale: ex galeotti, invalidi, bellimbusti, specialisti in espedienti e sotterfugi. Parenti e amici. A dozzine. Manco un regalo di nozze. Manco una cravatta.
Io mi ritraevo sempre più nel mio cantuccio.
C’era uno ch’era alquanto malridotto. Gli ci vollero 25 minuti per salire le scale. Aveva un paio di stampelle su misura, potentissime, con manopole speciali e ammennicoli vari. In alluminio e caucciù. Mica di legno. Strologai: merce scadente o mancata spartizione. Così l’hanno crivellato, alla vecchia maniera, mentre stava dal barbiere coi pannicelli caldi sulla faccia appena rasa. Solo che non gli hanno leso nessun organo vitale.
Ce n’erano tanti altri. Uno aveva una cattedra all’Università di Los Angeles. Un altro contrabbandava droga a bordo di pescherecci cinesi.
Venni insomma presentato ai più grandi assassini e farabutti del secolo. Quanto a me, ero a spasso fra un impiego e l’altro. Poi venne oltre Harvey.
"Che ne dici, Bukowski, d’un po’ di whiskey e acqua?"
"Come no, Harvey, come no." Andammo in cucina.
"Come mai, la cravatta?"
"La lampo dei calzoni è difettosa. Le mutande, troppo strette. L’estremità della cravatta mi copre il pelo sopra l’uccello."
"Per me, sei tu il maestro del racconto moderno, fra i viventi, e nessuno ti sta al pari."
"Come no, Harvey. Dov’è lo scotch?" Mi mostrò la bottiglia.
"Bevo sempre questo qui, perché è quello che nomini tu nei tuoi racconti."
"Sì però ho cambiato marca adesso, Harv. Ne ho trovato uno migliore."
"E come si chiama?"
"Ch’io sia dannato se me ne ricordo."
Trovai un bicchiere da cucina, lo riempii, metà acqua metà scotch.
"Fa bene ai nervi," dissi, "li distende."
"Come no, Bukowski." Lo tracannai d’un fiato.
"Ancora uno?"
"Come no."
Col bicchiere pieno in mano, tornai nel mio cantuccio, nel salone. C’era un po’ d’agitazione. Frattanto era arrivato il maestro di Zen.
Costui indossava un costume bizzarro e teneva gli occhi strizzati. O forse erano così per natura. Al maestro di Zen occorrevano dei tavolini. Roy si diede a rimediarli.
Il maestro di Zen era calmissimo, molto aggraziato. Tracannai la mia bumba, andai a rifare il pieno, tornai.
Arrivò di corsa un ragazzina coi riccioli d’oro. Sugli undici anni.
"Bukowski, ho letto alcuni tuoi racconti. Sei il più grande scrittore che conosco." Lunghi boccoli biondi. Occhiali. Magrolino.
"Okay, baby. Quando sarai più grande, ci sposiamo. Mi mantieni tu. Mi sto stufando. Magari, ecco, mi carreggi in giro in una specie di gabbia di vetro, coi buchi per l’aria. Tu ti farai pappare dai ragazzi. Io, buono e zitto. Starò magari a guardare."
"Ma Bukowski! Solo perché porto i capelli lunghi mi pigli per una femmina. Mi chiamo Paul. Siamo stati presentati. Non ricordi?"
Il padre di Paul, Harvey, mi stava guardando. Gli lessi negli occhi che, a questo punto, non mi reputava più un grande scrittore, dopotutto. Forse, anzi, un pessimo scrittore. Bah, nessuno può restare nascosto per sempre.
Ma il ragazzino era in gamba. "Sia come sia, Bukowski, tu sei sempre il più grande scrittore che abbia letto. Papà mi ha permesso di leggere alcuni tuoi racconti…"
Qui si spensero tutte le luci. Era quel che si meritava, quel marmocchio, per la sua lingua lunga…
Ma s’accendevano candele dappertutto. Chi qua chi là, tutti si procuravano una candela e l’accendevano.
"È saltata una valvola, che cazzo, ci vuoi niente a ripararla," dissi io.
Qualcuno disse che non era una valvola, era non so che altro, casi ci rinunciai, mentre altre candele s’accendevano, e andai in cucina per farmi un altro scotch. Merda, ci trovai Harvey.
"Hai un gran bel figliolo, sai, Harvey. Il tuo ragazzo, Peter…"
"Paul."
"Scusa. Questi apostoli."
"Capisco."
(I ricchi capiscono; solo, non ci fanno niente.)
Harvey stappò un’altra bottiglia di whiskey. Parlammo di Kafka, Dos Passos, Turgenev, Gogol’. Merdate del genere. Ormai c’erano candele dappertutto. Il maestro di Zen voleva che si procedesse. Roy m’aveva dato i due anelli. Mi tastai. C’erano ancora. Tutti aspettavano noi. Io aspettavo che Harvey cadesse lungo steso, a furia di bere. Mi rodeva il culo: mi stava alle calcagna, un bicchiere ogni due miei, e ancora si reggeva in piedi. Non capita spesso. Avevamo fatto fuori mezzo quinto, in dieci minuti, mentre accendevano le candele. Ci unimmo alla folla. Consegnai gli anelli a Roy. Roy aveva avvertito il maestro di Zen, in precedenza, che io ero un ubriacone — di nessun affidamento — pusillanime o d’animo cattivo — quindi, durante la cerimonia, non chiedesse gli anelli a Bukowski, ché Bukowski poteva non esserci neanche. O aver perso gli anelli. O vomitare. O aver perso Bukowski.
Alla fine, eccoci qua. Il maestro di Zen cacciò fuori un libriccino nero. Non tanto grosso. Un 150
pagine, direi.
"Chiedo," disse lo Zen, "che non si beva né fumi durante la cerimonia."
Io scolai il mio bicchiere. Stavo alla destra di Roy. Da tutte le parti si trincava. Il maestro di Zen fece un sorrisetto stento e stronzo.
Conoscevo, per triste esperienza, il matrimonio di rito cattolico. E la cerimonia Zen rassomigliava a quella cristiana, con qualche balla in più. A un certo punto, furono accesi tre bastoncini. Il maestro ce n’aveva una scatola piena. Uno degli stecchi — quello del maestro — venne piantato acceso al centro d’una ciotola di sabbia. Poi Zen invitò Roy a piantare il suo stecco da una parte, Hollis dall’altra.
Ma non li piantarono bene. E il maestro di Zen dové; dare un’aggiustatina agli stecchi, per calzarli giù meglio e pareggiarli.
Poi cacciò fuori una coroncina di pallucche scure. La porse a Roy.
"E adesso?" chiese questi.
Cazzo, pensai, Roy s’informa sempre prima. Perché è venuto impreparato proprio alle sue nozze? Zen prese la destra di Hollis e la mise nella sinistra di Roy. E avvolse le loro mani nella coroncina.
"Vuoi tu…"
"Sì."
(Questo è Zen? pensavo io.)
"E vuoi tu, Hollis…"
"Sì."
C’era intanto uno stronzo che, al lume di candela, scattava foto a tutt’andare. Ciò mi rendeva nervoso. Metti ch’era I’F.B.I.
Clic! clic! clic!
S’intende, avevamo tutti la coscienza pulita. Ma lo stesso era irritante. Lavorava così alla carlona.
Poi notai le orecchie del maestro di Zen, al lume di candela. Trasparenti, come fossero fatte di carta igienica.
Quell’uomo aveva le orecchie più sottili che avessi mai visto. Ecco cosa lo rendeva santo! Io dovevo far mie quelle orecchie! Si! Per ricordo, per amuleto, oppure pel mio gatto. O per tenerle sotto il guanciale.
Lo sapevo, certo, che era per via che avevo bevuto tutto quel whiskey, tutta quella birra, ma, al tempo stesso, non lo sapevo.
Seguitavo a fissare le orecchie del maestro Zen. Ancora parole.
"…e tu, Roy, prometti di non far uso di droghe una volta coniugato con Hollis?"
Una pausa imbarazzante. Poi, con quella coroncina intrecciata alle loro mani giunte, Roy rispose:
"Prometto di non…"
Finalmente finì. O pareva finita. Il maestro di Zen stava eretto sulla schiena, con un sorrisa appena accennato. Toccai Roy sulla spalla. "Congratulazioni."
Poi mi sporsi. Presi la testa di Hollis, baciai le sue bellissime labbra. Nessuno si muoveva. Un, popolo di subnormali.
Tutti fermi. Le candele ardevano subnormalmente. M’accostai al maestro Zen. Gli strinsi la mano.
"Grazie. Hai condotto molto bene."
Parve molto contento, e ciò mi fece sentir meglio. Ma tutti gli altri — quel branco di gangsters e mafiosi e intrallazzatori — erano troppo orgogliosi e stupidi per stringere la mano a un orientale. Solo un altro baciò Hollis. Solo un altro strinse la mano al maestro Zen. L’avresti detta una festa di "nozze col fucile." Tutto quel parentado! Beh, io sarei stato l’ultimo a saperlo.
Finita la cerimonia nuziale, l’atmosfera si fece freddina. Stavano là, a guardarsi l’un l’altro. Non ho mai capito, io, la razza umana. Ma qualcuno doveva pur fare il pagliaccio. Mi sfilai la cravatta verde, la lanciai in aria.
"EHI! BOCCHINARI! MA NESSUNO CI HA FAME?"
Andai oltre e cominciai a arraffare tartine al formaggio, zamponcini di porco, petti e culi di pollo. Qualcuno di quei morti si svegliò. Vennero oltre, arraffarono cibarie, non sa pendo che altro fare.
Avevo dato il via alla pappatoria. Io per me sgattaiolai in cucina, per il whiskey. Di là sentii il maestro Zen che diceva: "Devo andare, adesso."
"Oh no! non vada via…" si levò una voce stridula di vecchia, lì frammezzo a quell’adunata di banditi, quel consesso di mafiosi. Ma così, tanto per dire. Che ci facevo io, in mezzo a quel branco? E che cosa ci faceva il professore universitario? No, no: lui non era un pesce fuor d’acqua.
Ci voleva un pentimento. O qualcosa. Un atto che umanizzasse tutta la cerimonia.
Quando udii il portone rinchiudersi dietro il maestro Zen, allora, tracannato il mio scotch, gli corsi appresso. Solcai la folla di ciarlanti bastardi, trovai la porta (non facile impresa, l’aprii, la rinchiusi, lo vidi: Mister Zen era 15 gradini avanti a me. C’era un’altra cinquantina di scalini, per arrivare al pianale.
L’inseguii, barcollando, ma guadagnavo terreno. Urlai: "Ehi, Maestro!"
Zen si volse: "Che c’è, vecchio?" Vecchio?
Ci fermammo, ci guardammo, su quella scalinata tortuosa prospicente il giardino tropicale, al chiardiluna. Il momento pareva propizio a rapporti cordiali.
Gli dissi: "O mi dài le tue orecchie, tutt’e due, o mi dài la tua vestaglia… quel barracano del cazzo che ci hai indosso!"
"Vecchio, sei pazzo!"
"Mi credevo che lo spirito Zen fosse più spiritoso. Mi hai deluso, Maestro, con codesta affermazione alla buona!"
Zen uni le palme delle mani e volse gli occhi al cielo. Gli dissi: "O le orecchie, porco giuda, o il barracano!" Lui teneva le palme unite, lo sguardo al cielo.
Mi scagliai, giù per le scale, a vita persa, roba da spaccarmi il cranio, scivolando sui gradini, quasi a volo, e gli arrivai addosso, tutto proteso in avanti, cercai di colpirlo, ma ero troppo lanciato, era come se fossi stato scagliato da una catapulta. Zen m’agguantò, mi rimise in equilibrio.
"Figliolo mio, figliolo…"
Eravamo a faccia a faccia. Vibrai un cazzotto. Lo colpii da qualche parte. Lo sentii sibilare. Tirai un altro pugno. A vuoto. Scivolai. Ruzzolai su un cespuglio di piante esotiche, infernali. Mi rialzai. Mi avventai di nuovo. Al lume di luna, mi vidi tutto imbrattato, davanti, di sangue e vomito e colatura di cera.
"L’hai trovato, il castigamatti, bastardo!" gli notificai, nell’avventarmi. Mi attese a piè fermo. Gli anni di vita sedentaria e impiegatizia non mi avevano del tutto rammollito. Gli ammollai un cazzottone in pieno petto, con tutto il peso dei miei 80 chili.
Zen emise un urletto, supplicò ancora il cielo con lo sguardo, disse qualcosa in orientale, mi assestò una sleppa di karate gentilmente, e mi lasciò lì, accartocciato in mezzo a aiola di cactus messicani e di cert’altre piante che, a occhi’e croce, dovevano essere piante carnivore, antropofaghe, della giungla brasiliana. Restai sdraiato, per riposarmi, finché uno di quei fiori purpurei non si chinò su di me e cominciò a mordicchiarmi sul naso.
‘Azzo, era ora di tagliare la corda da lì. Mi disimpegnai da quei famelici tralci e risalii su per le scale, a gattoni. In cima all’ultima rampa mi tirai su, in piedi, e rientrai in casa. Nessuno fece caso a me. Seguitavano a parlare di cazzate. Andai nel mio cantuccio. La botta di karatè m’aveva spaccato un sopracciglia. Tirai fuori il fazzoletto.
"Cazzo, ho sete!" urlai.
Harvey mi portò un bicchiere di whiskey, liscio. Lo tracannai. Quel brusio di voci umane… come poteva essere tanto insensato? Notai la donna che m’era stata presentata come la madre della sposa e che adesso metteva in mostra un par di gambe niente male, fasciate da calze di seta, con scarpe dai tacchi a spillo, la tomaia guarnita di strass. Roba da arrapare qualsiasi idiota, e io ero un mezzo idiota come niente.
M’alzai, andai oltre, le tirai su la gonna sulle cosce, mi chinai a baciarla svelto svelto sui ginocchi e a risalire baciucchiando su su su.
La luce di candela era propizia. Ogni cosa.
"Ehi!" esclamò la madre della sposa, tutt’a un tratto. "Ma che vuoi fare?"
"Scoparti, voglio. Mi ti voglio scopare, ma tanto, fino a farti scappare fuori la cacca dal culo. Che ne dici?"
Mi diede uno spintone e cascai all’indietro sul tappeto.. Mi trovai disteso lungo sulla schiena, annaspavo, non riuscivo a ritirarmi su.
"Maledetta virago!" le urlavo.
Alla fine, dopo due tre minuti, riuscii a rialzarmi: Qualcuno rideva. Mi reggevo ancora sulle gambe. Allora mi diressi in cucina. Mi versai un whiskey, lo tracannai. Me ne versai un altro, uscii fuori.
Erano tutti là, tutto il maledetto parentado.
"Roy… Hollis… perché non aprite il regalo?"
"Come no," mi rispose Roy.
Il regalo era avvolto in 45 metri di carta stagnola. Roy non finiva più di scartare. Alla fine l’apri.
"Tanti auguri!" gridai.
Si fece silenzio nella sala. Tutti guardavano.
Era un piccolo feretro intagliato a mano dei migliori artigiani spagnoli. Era perfino foderato di feltro rosso porpora. Era la copia esatta d’una vera cassa da morto, tranne solo che era stato eseguito con più amore.
Roy mi diede un’occhiataccia, strappò via il cartellino con le istruzioni per mantener lucido il legno, lo ficcò dentro il feretro, ne richiuse il coperchio.
C’era un gran silenzio. L’unico regalo, e non era gradito,
Ma ben presto si riebbero, e ripresero a parlare di fregnacce.
Io m’avvilii. Ero fiero del mio piccolo feretro. Ero stato ore e ore a scegliere un regalo. A momenti diventavo matto.
Alla fine lo notai, su una scansia, tutto solo. Lo presi, lo rigirai, ci guardai dentro. Costava caro ma la lavorazione artigiana era perfetta. II legno. Le cernierette. Tutto quanto. Nello stesso negozio comprai anche del veleno per le formiche. Avevano fatto un nido presso il portone di casa mia. Mostrai i miei acquisti alla commessa, una giovane ragazza. Indicando il feretro, le chiesi:
"Lo sa cos’è?"
"Cosa?"
"Una bara."
Sollevai il coperchio.
"Quelle formiche mi fanno diventar matto. Lo sa cosa gli faccio?"
"Cosa?"
"Le ammazzo tutte quante, le metto in questa bara e le sotterra." Lei rise. "Questa è la migliore della giornata."
Non riesci più a stupirli, questi giovani. Sono diventati una razza superiore. Pagai, e me n’andai…
Adesso, alle nozze, nessuno aveva riso. Una pentola a pressione, con un bel fiocco rosso intorno, quella sì che li avrebbe resi felici. …Dici?
Harvey, il ricco, si dimostrò il più gentile. Forse perché poteva permetterselo. Mi ricordai qualcosa che avevo letto in un libro, un antico libro cinese:
"Preferiresti essere ricco o essere un artista?"
"Ricco, perché l’artista, a quanto pare, va sempre a battere alla porta del ricco."
Seguitai a tracannare whiskey e non me ne fregava di niente. Un bel momento, tutto era finito: e mi ritrovai a bordo della mia auto, sul sedile di dietro. Hollis era al volante, di nuovo. Di nuovo la barbaccia di Roy mi svolazzava sul muso. M’attaccai alla bottiglia.
"Non l’avete mica buttata via, la mia cassa da morto, eh, voialtri? Vi voglio bene, io. Ma perché l’avete buttata via?"
"Eccola qua, Bukowski, la tua cassa da morto!" Roy la tirò fuori, me la mostrò.
"Ah, bene."
"La rivuoi?"
"Ma no, ma no. È il mio regalo di nozze. L’unico che avete ricevuto. Tenetela."
"Va bene."
Per il resto del tragitto restammo zitti. Io abitavo ne paraggi di Hollywood (per forza). Il parcheggio era un problema. Trovarono un posto a un par di cento metri da casa mia. Mi consegnarono le chiavi. Poi si diressero verso la loro automobile. Li guardai allontanarsi, poi mi volsi e, con la bottiglia in mano, mi diressi verso casa. A un certo puntai scivolai e persi l’equilibrio. Caddi all’indietro: il mio primo istinto fu di proteggere la bottiglia per non farla andare in pezzi sul cemento (istinto materno) e, cadendo a gambe all’aria, cercai di battere le spalle, tenendo su la testa e la bottiglia. La bottiglia la salvai, ma picchiai la testa sul marciapiede, crac!
Roy e Hollis mi videro cadere. Io restai mezz’intontito per la botta però ebbi la lena di gridare: "Roy! Hollis! aiutatemi a arrivare al portone! Mi sono fatto male!"
Ristettero un momento, a guardarmi. Poi salirono sulla loro auto, misero in moto, e via, tranquillamente.
Volevano farmela pagare per qualcosa. Per il feretro? O chissà perché ce l’avevano con me: per aver adoprato la mia auto, o me come compare d’anello e/o come pagliaccio… Fatica sprecata, da parte mia. La razza umana mi ha sempre, disgustato. Ciò che, in sostanza, me la rende disgustosa è la malattia dei rapporti familiari, il che include il matrimonio, scambio di potere e aiuti, cosa che, come una piaga, come una lebbra, poi diviene: il tuo vicino di casa, il tuo quartiere, la tua città, la tua contea, la tua patria… tutti quanti che s’abbrancano stronzamente gli uni agli altri, nell’alveare della sopravvivenza, per paura e stupidità animalesca.
Lo capii, tutto questo, mentre i due novelli sposi si allontanavano lasciandomi lì per terra, a implorare. Datti tempo cinque minuti, pensai. Mi riposo per cinque minuti, poi riesco a alzarmi e arrivare a casa. Ero l’ultimo dei fuorilegge. Billy the Kid non aveva nulla da invidiarmi. Altri cinque minuti. Fa’ solo che arrivi alla mia tana. Metterò giudizio. La prossima volta che m’invitano a una delle loro funzioni, li
mando a fare in culo. Cinque minuti. Non chiedo. altro. Passarono due donne. Si voltarono a guardarmi.
"Guardalo là. Che ci avrà?"
"È ubriaco."
"Non si sentirà male?"
"Macché. Guarda come si stringe al cuore quella bottiglia. Come una creatura." Merda. Gli urlai:
"IO VI DO NEL CULO! IO MI V’INCULO A TUTT’E DUE. BRUTTE MIGNOTTE!"
"Oooooh!"
Corsero via, a gambe levate. S’infilarono dentro il portone di casa loro. Una porta di cristallo. E io non riuscivo a alzarmi in piedi. Io, il compare d’anello. Ero a soli trenta metri da casa mia: una distanza pari a tre milioni di anni luce! A trenta passi dal portone di casa tua. Fra due minuti, ce la faccio a alzarmi. Sentivo che le forze mi stavano tornando a poco a poco. Un vecchio ubriacone ce la farà sempre, basta che si dia tempo. Un minuto. Ancora un minuto. Ce l’avrei potuta fare.
Ma arrivarono loro. Due tutori della pazzesca struttura familiare del mondo. Pazzi, sul serio. Neanche si chiedono perché fanno quel che fanno, costoro. Avevano lasciato le luci rosse della macchina accese. Uno aveva una torcia elettrica.
E mi fa: "Bukowski, non riesci proprio a star alla larga dai guai, tu, eh?" Conosceva il mio nome, doveva aver già avuto a che fare con me.
"Sentite," dissi, "sono scivolato, ecco. Ho battuto la testa. Non perdo mai i sensi, né la ragione. Non sono pericoloso. Fate una cosa, aiutatemi a arrivare alla porta di casa mia. Abito a 30 metri da qui. Basta che m’aiutate a buttarmi sul letto, e mi passa da sé, con una dormita. Non pensate che sarebbe la cosa più decente che possiate fare?"
"Due donne ti hanno denunciato, per tentata violenza carnale."
"Signori miei, non ho mai tentato di violentare due donne in una volta."
Il primo sbirro seguitava a abbagliarmi, con la torcia. Ciò gli dava un senso di superiorità.
"A 30 passi dalla libertà. Non capite?"
"Sei una macchietta, Bukowski. Il più gran buffone della città. Non sai dir niente di più sensato?"
"Ecco, vediamo… Colui che vedete qui, steso sul selciato, è il prodotto finale di uno sposalizio, un matrimonio Zen."
"Vuoi dire che una donna ha davvero cercato di sposartisi?"
"Non a me, stronzo…"
L’agente con la torcia, me la diede sul muso.
"Devi usare rispetto coi tutori della legge.
"Scusa. Per un momento me n’ero scordato."
Il sangue mi colò giù pel mento, sulla camicia. Ero molto, molto stanco… di tutto quanto.
"Ma perché, Bukowski," domandò quello che m’aveva colpito, "non riesci a star alla larga dai guai?"
"Lascia perdere di dire cazzate, e portami in prigione."
Mi ammanettarono, mi caricarono sull’auto. La stessa vecchia triste storia.
L’auto procedeva lenta, e loro parlavano d’ogni sorta di cazzate — tipo far allargare la veranda, o mattonelle nuove per il cesso, o una stanza in più sul retro per la nonna — eppoi di sport — oh, erano veri uomini, loro — e dài a dire che i Dodgers non avevano perso tutte le speranze, anche se erano terzi o quarti in classifica — poi di nuovo della casa e della famiglia — se vincevano i Dodgers, era come vincessero loro. Se un uomo sbarcava sulla luna, era come ci sbarcassero loro. Ma aspetta che un morto di fame gli chieda un quarto di dollaro… lo mandano a farsi fottere, povero testa di merda. Vale a dire, quando sono in borghese. Non s’è mai visto un morto di fame domandare un quarto di dollaro a uno sbirro in divisa. Questo, è poco ma è sicuro.
Poi tutta la trafila, un’altra volta. E pensare che ero a 30 passi dal portone di casa mia! Reduce da una festa in cui ero l’unico essere umano su 59 invitati.
Eccomi di nuovo nella legione straniera dei cosiddetti colpevoli. I giovani non capiscono niente. Hanno le idee confuse, circa quella roba chiamata COSTITUZIONE, circa i loro DIRITTI. Gli sbirri, sia in città che nei sobborghi, vengono addestrati a spese degli ubriachi. Han da farti vedere chi sono. Mentre stavo là a guardare, portarono uno in un ascensore e lo. fecero andare su e giù, su e giù, e quando uscì fuori non si capiva più chi fosse, o che cosa fosse stato: un negro che urlava di Diritti Umani. Poi presero un bianco, che gridava qualcosa a proposito di Diritti Costituzionali. In quattro o cinque lo presero. Lo trascinarono via senza fargli toccar terra coi piedi, e quando lo riportarono l’appoggiarono a un muro, e quello stava là e tremava tutto, pieno di lividi per tutto il corpo, era scosso da brividi e tremava.
Mi fecero la fotografia, mi presero le impronte digitali, insomma tutta quanta la trafila.
Mi sgnaccarono in guardina. La grande cella comune era gremita d’ubriachi, ce ne saranno stati 150. Un’impresa, trovar spazio. Piscio e vomito dappertutto. Una latrina. Mi feci largo fra i miei compagni di sventura, cercando un posticino. Ero Charles Bukowski, io, uno che aveva un posto negli Archivi Letterari dell’Università di California. C’era chi mi reputava un genio. M’allungai su un tavolaccio. Dopo un poco, sentii una voce. La voce d’un ragazzo.
"Un pompino, maestro, per un quarto di dollaro."
Il regolamento voleva che ti svuotassero le tasche. Ti levavano i soldi, i documenti, il coltello, le chiavi e così via, pure le sigarette, e ti rilasciavano una ricevuta. Che tu perdevi o vendevi o ti veniva rubata. Però soldi e sigarette circolavano lo stesso, lì dentro.
"Mi dispiace, ragazzo," gli dissi, "non ho un soldo." Quattro ore dopo, riuscii a addormentarmi. Là.
Compare d’anello a uno sposalizio Zen. Magari gli sposi manco avranno scopato, quella notte. Ma qualcuno era stato fottuto regolarmente.