di Marco Meschini
San Gregorio Magno e il diacono Pietro - miniatura dal "Registrum Graegorii", 983 - Treviri, Stadtbiblithek.
C’è il monaco ortolano, Felice di nome e Curvo di soprannome e di fatto, che dice a un serpente: «Seguimi», e lo porta dove il ladro è solito scavalcare il muro. Quando il furfante arriva trova il rettile e si spaventa, cade, rimane impigliato, pende a testa in giù. Giunge Felice, ringrazia e licenzia il serpente, sgrida il malcapitato. Poi lo libera, gli offre quel che avrebbe rubato e gli spiega che è meglio chiedere che rubare. C’è il piccolo ed esile Costanzo, sacrestano di Santo Stefano fuori Ancona, che riempie le lampade della chiesa con acqua perché l’olio è finito. E le lampade si accendono. Arriva di corsa un contadino della zona, vede l’omino e, nella sua rozzezza, dice: «L’avevo creduto un grand’uomo, ma questo non è neppure un uomo». E Costanzo? Tutto lieto lo abbraccia e lo bacia e lo ringrazia, perché solo lui ha capito che non è l’uomo a fare. Perché, come spiega l’autore del testo al suo discepolo, «le opere procedono dal dono, non il dono dalle opere: altrimenti la grazia non è grazia». C’è Bonifacio, il bambino avviato alla santità, che prega perché la volpe lasci la gallina della madre, e la volpe cade a terra morta. Ma si vede pure il sacerdote Severo, che piange e prega, e resuscita un morto. E poi c’è la straordinaria vita del vir Dei, l’«uomo di Dio» per eccellenza, Benedetto da Norcia.
Sono più di ottanta i santi e circa duecento i miracoli contenuti nei Dialoghi, l’opera più famosa di Gregorio I Magno (540-604), uno dei grandi personaggi del Medioevo e della storia della Chiesa. Un’opera distante dalla raffinatezza dottrinale e di scrittura di altri capolavori di Gregorio – come le omelie o il commento al libro di Giobbe – tanto da indurre la critica a dubitare della paternità di questi quattro libri così disomogenei anche fra loro. In questi ultimi decenni un vero e proprio accanimento filologico ha cercato di smontare l’attribuzione al Magno di un’operetta così semplice; ma a ricollocare nelle mani del Santo Pontefice il calamo creatore hanno pensato Salvatore Pricoco e Manlio Simonetti, curatori e traduttori di una nuova e solida edizione con il titolo Storie di santi e di diavoli (Mondadori-Lorenzo Valla, pagg. 500, euro 27). Il Papa concepì il libro come rimedio all’afflizione per gli affanni del saeculum, quel «mondo» che lo aveva sottratto alla pace del monastero per spedirlo in Oriente a trattare con l’imperatore, e che, nonostante le sue resistenze, lo aveva messo a capo della chiesa di Roma nel 590, in anni difficili, con i Longobardi a infierire in Italia e il potere imperiale assente. Gregorio fu geniale nella parola e nell’esempio, nella gestione politica ed economica, nella ripresa della missione ad gentes. Ed ecco il Pontefice che si ritrae un momento in un locum secretum, un luogo appartato dove meditare, sino al sopraggiungere del diacono Pietro, suo stretto collaboratore. Tra i due comincia un dialogo, che diviene narrazione e spiegazione quando Pietro dubita che l’Italia abbia conosciuto qualche santo capace di operare miracoli. E Gregorio a riempire quattro libri per svelare come la realtà sia molto diversa, e che anzi la penisola è ricca di santi e di opere: basta aprire gli occhi e il cuore, dice Gregorio, e anche le cose più piccole – come una brocca che viene aggiustata con una preghiera – e le più grandi – assassini che fermano la mano, morti che tornano in vita – saranno visibili. Perché non è il segno in sé, il miracolo in quanto tale che rende santo l’uomo, ma la sua vita, l’amore di Dio e del prossimo prima di tutto, prima di sé. Insomma i miracoli provengono da una vita santa, e questa dalla grazia di Dio. I Dialoghi di Gregorio sono un’opera fondatrice, che introduce e nobilita in Occidente la dimensione misteriosa della fede senza indulgere alla taumaturgia fine a se stessa e perché, nel secondo libro, getta le basi per il riconoscimento della grandezza di san Benedetto, futuro patrono d’Europa. Un’opera sorgiva, perché vicina a quella fonte da cui scaturisce la «grazia delle lacrime», cioè la scoperta del proprio limite, e l’apertura sull’eterno.
da “Il Giornale”, 20/06/2005.