Magazine Cinema
Se la vicenda umana e' terribile anche perché tende a ripetersi con una
misteriosa quanto inesorabile propensione al peggio, allora non resta che
stringere i denti e misurarsi, scuotere la volontà e mettersi faccia a faccia
con le forze più arcaiche e più esigenti - quelle della natura - che da un lato
consentono la nostra esistenza e dall'altro la vincolano entro limiti
invalicabili.
Affrontare i rischi, dunque, ad occhi aperti, e alla fine raccogliere ciò che
resta senza guardarsi indietro.
Questo - a spanne - lo spirito della splendida elegia narrata da John Milius
nel 1978 in "Big wednsday"/"Un mercoledì da leoni".
Segnato dallo svolgersi delle stagioni e contrappuntato da quattro grandi
mareggiate (pilastri temporali nemmeno troppo metaforici relativi a quattro
momenti importanti della storia americana: estate del '62/l'assassinio di
Kennedy; autunno del '65/"escalation" della guerra in Vietnam con
intensificazione dei bombardamenti e invio di fanteria e truppe
aviotrasportate; inverno del '68/l'offensiva del Tet - il nuovo anno lunare
vietnamita - e la sanguinosa battaglia di Hue; primavera del '74/lo scandalo
Watergate e le dimissioni del presidente Nixon), il film racconta, a partire
dai primi anni '60, le vite di tre amici californiani campioni di surf, Matt
(Jan-Michael Vncent), Jack (William Katt) e Leroy (Gary Busey) che crescendo
insieme condividono tutte le esperienze fondamentali che segnano il passaggio
all'età adulta.
Come tutti i ragazzi, infatti, i tre sono pieni di energia, sono stupidi,
confusi, con idee vaghe sulla vita e sul resto. Anche loro sono certi che la
gioventù non finirà mai, che l'estate durerà per sempre regalandogli, prima o
poi, così, per niente, l'illusione pu grande: intrappolare l'incanto selvaggio
delle cose, renderlo tutt'uno con i muscoli scattanti, le onde morbide e
insidiose e il sorriso delle ragazze.
La storia, scritta da Milius con Dennis Aaberg, segue il processo di
progressiva disillusione che porterà i tre e il resto dei loro amici - ma
potremmo parlare senza esagerare di un'intera generazione - ad allontanarsi
l'uno dall'altro, un tanto ogni giorno, quasi impercettibilmente (qualcuno
scompare, qualcuno si sposa, qualcuno va in guerra, qualcuno muore), per
ritrovarsi poi un'ultima volta - il mercoledì fatale di una gigantesca
mareggiata, appunto - sulle spirali d'acqua dell'oceano che adesso sembrano
chiudersi più in fretta, respingere, negare la magia di quell'equilibrio
sospeso che faceva scivolare dentro il corpo di un'onda come un abbraccio
perfetto, e alla fine, forse, sparire, perché e' arrivato il tempo di passare
la mano, con lucidità e fermezza, e non perché ciò sia giusto, opportuno o
imposto da un'autorità politica o spirituale, ma perché lo vuole la vita.
Milius, in costante simmetria tra epica e lirismo trova, nel ritmo ciclico
della narrazione, nella freschezza e leggerezza di riprese ancor oggi
strepitose (la fotografia e' del leggendario Bruce Surtees), la chiave per
virare uno dei cardini dell'immaginario americano - l'uomo solo di fronte alla
natura, quindi di fronte a se stesso - alla malinconia, alla rinuncia come
prova di maturità, alla sconfitta come occasione per leggere il mondo da un
altro punto di vista.
Incastrato fra due giganti (coevo e' "Il cacciatore" di Cimino; del 1979
"Apocalypse now" di Coppola da Milus stesso sceneggiato) e incautamente
accostato al di molto successivo (1991) "Point break" di Kathryn Bigelow, di
cui non condivide ne' il furore adrenalinico della messa in scena, ne' le
suggestioni più o meno filosofiche legate al surf (nel film di Milius il surf
e' un pretesto per stare con gli amici), tanto meno un certo cinismo di fondo,
"Un mercoledì da leoni", nonostante il quasi totale oblio che lo avvolge,
s'impone ancora, all'interno di un cinema classico, di alto intrattenimento,
come una delle più sentite e a volte struggenti riflessioni sulla giovinezza,
sul corpo che materialmente produce la Storia, sul tempo perduto,
sull'amicizia.
di TheFisherKing
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