Sono in molti ad avere fantasticato sulle possibilità di sfruttare le stampanti 3D per facilitare la colonizzazione della Luna o di Marte costruendo in loco, con materiale a km zero, strutture da utilizzare per costruire l’avamposto terrestre. L’idea è allettante: invece di portare il materiale e/o le strutture si trasporta solo la stampante 3D e si fa tutto sul posto. Trasformare in mattoni la regolite lunare o le sabbie di Marte sarà possibile un giorno? Probabilmente si, ma sarà bene cominciare a darci una mossa perché rimane ancora molto da fare. Il pubblico tende ad avere una percezione esagerata, quasi magica di quello che può fare la tecnologia. Non lo dico io, ma un serissimo report del National Research Council intitolato 3D printing in space pubblicato nel luglio di quest’anno. Mi ha colpito la frase «The realities of what can be accomplished today, using this technology on the ground, demonstrate the substantial gaps between the vision for additive manufacturing (un modo elegante per definire la stampa 3D) in space and the limitations of the technology and the progress that has to be made to develop it for space use. What can be accomplished in the far future depends on many factors, including decisions made today by NASA and the Air Force».
E la NASA ha deciso: il 20 settembre (giorno più, giorno meno) il cargo destinato al rifornimento della stazione spaziale avrà a bordo una stampante 3D. La realizzazione di tutti i sogni deve avere un punto di partenza e la stampa 3D nello spazio è sul punto di diventare una (piccola) realtà. Dalla descrizione che ho letto, la stampante della ISS sembra simile a quella che usano i tecnici del mio istituto per costruire modelli in plastica dei pezzi che poi realizzeranno in metallo. Sono stata io che, sentendomi terribilmente innovativa, avevo insistito per comperarla perché avevo letto meraviglie di questo cubo di circa mezzo metro di lato capace di trasformare un file CAD in un oggetto vero. La realtà è apparsa subito un pochino più complicata. La stampante è esigente e vuole un certo tipo di file, preparato in un certo modo, ha tempi di esecuzione lunghi e, quando hai bisogno di un modellino per una presentazione, si inceppa e reclama lunghe e meticolose pulizie. Capisco quindi il tono pacato del comunicato NASA: lanciamo una stampante 3D sulla stazione spaziale per vedere come funziona. Anche supponendo che i CAD siano già tutti pronti, chissà come reagirà la stampante alla mancanza di gravità. L’hanno provata sulla vomit comet, l’aereo che descrive parabole per creare per qualche decina di secondi la mancanza di gravità (con sgradevoli effetti collaterali) e si sono accorti che gli straterelli di plastica non erano spruzzati uniformemente. Hanno fatto qualche modifica ed ora vogliono testare la macchina a gravità zero, in orbita. La plastica si fonderà in modo omogeneo oppure la mancanza di gravità modificherà il flusso del calore e la plastica farà dei grumi? Come si comporteranno gli ugelli in assenza di gravità? Spruzzeranno la plastica fusa nel posto giusto? Vedremo come andranno le prove tecniche. Già mi immagino gli astronauti intenti a guardare affascinati la macchina che deposita uno straterello dopo l’altro (è un’esperienza interessante anche se un po’ noiosa a lungo andare). Per costruire cosa? Sicuramente proveranno a cimentarsi con ipotetici pezzi di ricambio. Chi ha visto Apollo 13 sa come sia stato difficile costruire un filtro per pulire l’aria della capsula dall’anidride carbonica che si accumulava dopo l’esplosione che aveva causato la perdita della riserva di ossigeno. Una squadra di ingegneri a terra si mise a fare bricolage usando quello che poteva essere disponibile ai tre astronauti con la navicella in avaria. Se in una occasione simile fosse stata disponibile una stampante 3D (con tutti i file giusti, aggiungo io) i pezzi necessari avrebbero potuto essere replicati. Forse non immediatamente, ci sono pur sempre dei tempi non brevissimi di esecuzione. Un ingegnere di Made in Space (la ditta che ha fornito la stampante 3D alla NASA) ci ha provato e, tra progetto e stampa, ci ha messo un giorno (ed era nel suo ufficio con i piedi per terra, non su una traiettoria balistica terra-luna senza possibilità di inversione di rotta).
Nella realtà, i pezzi di ricambio dovranno essere in metallo, e forse di diversi metalli (o leghe), implicando diverse stampanti, o (futuristiche stampanti plurimateriali), oltre ai progetti dettagliati di ogni pezzo. Se non troviamo il file relativo al pezzo che vogliamo duplicare, non ci rimane che la famosa chiamata «Houston we’ve had a problem» per farcelo mandare, magari con wifi spaziale. Per saltare questo passo, occorre dotarsi di una scanner 3D che crei il modelli di ciò che si vuole duplicare, ma l’oggetto che si vuole riprodurre deve stare ben fermo, mentre sulla ISS tutto fluttua senza peso.
L’accoppiata scanner e stampante 3D sono quanto di più vicino la tecnologia sia arrivata al fantastico duplicatore tridimensionale immaginato 50 anni fa da Primo Levi ne “ I Racconti Naturali”. É lì che troviamo il Mimete una macchina in grado di replicare qualsiasi oggetto grazie all’utilizzo di un materiale tuttofare che Levi chiama “pabulum” (per un assaggio dei bellissimi racconti cliccate qui). Dopo le banconote, un diamante e una salsiccia, il Mimete duplica un ragno, una lucertola per poi arrivare all’assurdo della duplicazione della moglie del fortunato possessore della macchina che poi duplicherà se stesso per non dovere gestire due mogli.
Le nostre stampanti 3D non sono duplicatori di oggetti ma di schemi di oggetti, tuttavia nessuno dubita che potrebbero essere utili nel corso di una missione spaziale (sempre che non si inceppino). La NASA non è l’unica Agenzia a voler sviluppare il 3D nello spazio, l’Agenzia Spaziale Europea ci sta pensando e l’Agenzia Spaziale Italiana pianifica di mandare un sistema 3D italiano alla ISS nel 2017. Forse sarebbe il caso di ricordarsi di Primo Levi e chiamare la stampante 3D italiana Mimete.
Fonte: Media INAF | Scritto da Patrizia Caraveo