Alla fine, ci fu il ricevimento del Priore. Le sue stanze, un po’ anguste, dai muri spessi e con i soffitti a botte (un po’ come le celle monacensi) si aprivano una dopo l’altra; in qualche angolo, su un tavolino semplice, avevano disposto pane, acqua e piccole bottiglie del distillato prodotto da loro (una grappa che non avrei mai potuto assaggiare accompagnata solo da un po’ di pane).
Erano cinque, forse sei compreso il priore, benedettini; abitavano un monastero immenso, principesco, nel quale si entrava venendo da una distesa di campi di grano (in estate), mentre dalla parte opposta della proprietà il muro di cinta diventava una terrazza affacciata su una foresta di pini, spersi a perdita d’occhio. Un’abbazia di origini medioevali, che alla fine aveva conservato il suo volto barocco nella severa grandiosità degli edifici e nei magnifici e ridondanti affreschi: offriva una cappella affrescata degna di re e regine e un immenso salone di rappresentanza, al centro del quale troneggiava il nostro clavicembalo circondato da file di finestroni; una cripta, cupa e freddissima, nella quale si svolgevano i concerti, anche i nostri, sotto il carro guidato dalla morte; e poi caseggiati, scale a vite, scalinate barocche, cucine, stanzine, cortili aperti, giardini, celle di clausura, grate, cortili segreti. Scoprimmo uno dei cortili salendo una scalinata, che ci era preclusa, in realtà. Dall’alto, guardando in una grande finestra, si poteva scorgere un piccolo chiostro che racchiudeva un curatissimo giardino di albicocchi; una scala a pioli era appoggiata ad uno degli alberi, ma non c’era nessuno. Eppure la vita aleggiava, alacre, parsimoniosa, rispettosa.
Dei cinque o sei monaci, alcuni erano di clausura, perciò era impossibile vederli. Incontravamo talvolta il Priore, che ci salutava gentilmente toccandosi il cappello rosso, quando percorreva i suoi giardini con quell’andatura calma, senza fretta – senza tempo, certamente al di fuori del nostro.
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