Valle del Cauca, Colombia, oggi. 17 anni fa Alfonso, per qualche conflitto che non conosciamo, se ne andò di casa, lasciando la moglie Alicia e il figlio adolescente Gerardo. Dopo anni di astioso silenzio, ora è stato richiamato e sta tornando dalla famiglia. Sceso dalla corriera sulla strada principale non riconosce i luoghi dove era vissuto: non c’è più traccia delle tante, modeste ma linde fattorie immerse negli agrumeti. L’ultima rimasta è la sua, malandata, quasi corrosa, circondata a perdita d’occhio, praticamente assediata, dalle coltivazioni di canna da zucchero.
Su tutto c’è uno spesso strato di cenere, prodotta dal quotidiano rogo delle stoppie. E’ stata quella cenere a fare ammalare Gerardo: i suoi polmoni completamente intasati ormai non funzionano più, passa le giornate a letto quasi in agonia. Senza la sua paga da tagliatore di canna la famiglia non ce la fa a tirare avanti: d’ora in poi l’ostile Alicia e la premurosa nuora Esperanza andranno a lavorare nei campi e l’anziano Alfonso si occuperà della casa e del nipotino.
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La fatica per le due donne è inenarrabile, aggravata dal fatto che le loro paghe arrivano ogni settimana più tardi; finché non arrivano del tutto, costringendo i braccianti a mettersi in sciopero. Intanto, in quella casa dalle finestre sempre chiuse, nonno Alfonso e il piccolo Manuel, che non si erano mai conosciuti, iniziano un rapporto affettuoso. Il nonno insegna al nipote a costruire piccoli oggetti di legno, a giocare con l’aquilone, a fare tutte quelle cose semplici per cui non aveva mai trovato il tempo quando Gerardo era piccolo, e che nemmeno Gerardo aveva mai fatto con suo figlio. La situazione si fa sempre più difficile e Alfonso, non potendo più salvare la sua terra, dovrà trovare il modo di mettere in salvo quel che resta della sua famiglia.
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Il 27enne regista César Acevedo ha girato questo suo lungometraggio d’esordio nei luoghi in cui è nato e che ben conosce. Ha scelto di ambientarlo in un microcosmo – una famiglia di cinque persone, una piccola casa e un grande albero, in cui cose e persone sono letteralmente soffocati dalle coltivazioni di canna da zucchero – per raccontare come la falsa illusione del progresso tecnologico stia minacciando la storia, la memoria e l’identità di intere popolazioni. Ha utilizzato il linguaggio cinematografico per dare visibilità ai tanti problemi sociali legati all’espansione dell’agricoltura industrializzata: la trasformazione del paesaggio, la distruzione del terreno per l’abuso di prodotti chimici e il fallimento economico dei piccoli contadini, che portano alla povertà, alle malattie e all’emigrazione. Il film nasce dall’urgenza di evidenziare il senso di appartenenza delle popolazioni rurali alle loro terre, ponendo l’attenzione sulla loro resistenza, nel suo Paese come in tanti altri, in cui l’identità e la varietà dei popoli sono costantemente minacciate.
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Presentato nella sezione “Settimana della Critica” del Festival di Cannes 2015, LA TIERRA Y LA SOMBRA (La terra e l’ombra) ha vinto clamorosamente la Caméra d’Or (Migliore opera prima), oltre al Premio della Società degli Autori e al Premio del Pubblico. E’ un film che, passando per gli occhi, arriva direttamente al cuore. Ha una fotografia impeccabile (di Mateo Guzman) e un cast di attori non professionisti davvero ammirevole. A colpire maggiormente sono la totale assenza di colonna musicale – una scelta precisa, perché i suoni e i rumori entrassero a far parte della storia – e la mirabile lentezza con cui è girato; che non significa stanchezza o mancanza di ritmo: ogni scena si prende il tempo necessario, né di più né di meno, secondo i ritmi della terra e della vita.
Non a caso è così importante il grande albero sotto cui molte scene si svolgono: quell’albero ha assistito alla storia della famiglia ed è l’unica traccia tangibile di ciò che è andato perduto. Anche lui scomparirà, ma la sua ombra resterà a proteggere il ricordo dei momenti per i quali è valsa la pena vivere. UN MONDO FRAGILE è un inno alla vita, alla dignità e alla speranza.
M.P.
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