di Eric Rochant. con: Hippolite Girardot, Mireille Perrier, Yvan Attal Francia, 1989 genere, drammatico durata, 85'
"Oisive jeunesse
A tout asservie
Par delicatesse
J'ai perdu ma vie".
- A.Rimbaud -
Nel tempo dell'obsolescenza programmata dei prodotti, una delle merci simboliche che mano mano ha visto più assottigliarsi il proprio intervallo
d'impiego (ossia il percorso che lo separa dalla data di scadenza e,
quindi, dalla massa indifferenziata dei rifiuti) e' - va a sapere se per
disgrazia o per fortuna - quella del ribelle a vario titolo. Che
- genericamente - ribellarsi sia diventato sempre più necessario o
sempre più funzionale agli scopi opposti al suo manifestarsi, e', in
altre parole, materia vasta e controversa che e' sensato destinare ad
altre sedi. E' tuttavia un fatto che il Cinema riesca ancora, con una
certa puntualità, a restituire modificazioni e sfumature proprio in
relazione a questo aspetto antagonista del vivere, nei modi di
un'immediatezza e una sintesi oggigiorno rare (un'annotazione per tutte e
per restare vicino a noi: "Les combattants", di Cailley), a volte
persino precluse - o magari in esse solo discontinue - ad altre forme
d'espressione.
Esempio
tra i possibili e' di certo anche la figura di Hyppo/Girardot
nell'esordio di Eric Rochant, a nome, appunto, "Un mondo senza pietà".
Già nel passo assertivo del titolo echeggiano gli atteggiamenti
scostanti e il fare nervoso di un giovane (borghese) disincantato e
cinico abbastanza per, da un lato, convivere, facendosi mantenere,
assieme al fratello minore, liceale più dedito allo spaccio al dettaglio
tra i coetanei che all'applicazione scolastica; dall'altro, darsi per
pura inerzia alla remunerazione aleatoria del poker, inframmezzando tali
attività alla contemplazione distante e sarcastica di un mondo - il
nostro, a dire l'Occidente moderno, tecnologico, finanziario il
quale, tra l'altro, proprio in ragione dei presupposti filosofici,
politici, economici che lo fondano, non può non essere senza pietà -
in piena e soddisfatta rincorsa verso la distruzione ("Se almeno
potessimo prendercela con qualcuno. Se potessimo credere di servire a
qualcosa. O di andare da qualche parte... Ma cosa c'hanno lasciato ? Un
domani felice ? Il grande mercato europeo ? Non abbiamo niente"); alle
frequentazioni con l'amico del cuore Halpern (un Yvan Attal posapiano e
sardonico, anch'egli qui alla sua prima volta - e al suo primo
Cesar -) e alla roulette sentimentale a base di ragazze incapaci di
lasciare, a conti fatti, traccia duratura in una prassi scaltrita dalla
ripetizione e da avvilenti conferme. Chiaro che le cose prenderanno una piega inedita al momento in cui il destino in apparenza segnato di un buono a nulla come
tanti, come Hyppo, andrà ad intersecarsi a quello dell'altrettanto in
apparenza mite Natalie/Perrier, minuta e riservata, di mestiere
(precario) interprete, laboriosa e precisa esecutrice di una vita da
esperire sul parimenti diffuso ma insidioso crinale che separa la
sicurezza fittizia della regolarità dai giri a vuoto dell'insulsaggine
dell'aurea mediocritas, in attesa di un'opportunità solo in parte esauribile da una prestigiosa borsa di studio oltreoceano.
Il
pregio di un film piuttosto lineare nella messinscena ma reso
sotterraneamente vibrante e autentico dallo scontrarsi di dialoghi
diretti e non di rado insofferenti ad individuare un tormento
esplicitato quasi proprio malgrado, tratto cioè fuori a forza da una nausea che
vorrebbe solo non sapere più niente (alla sceneggiatura ha collaborato
A.Desplechin, autore avvezzo a masticare il disagio interiore), come da
silenzi duri o di trattenuta afflizione, risiede soprattutto - e allo
stesso tempo - nella frizione (a dire, nel sorprendente effetto di naturalezza che da tale attrito scaturisce) tra un Sistema che per statuto non
fa che promuovere ed esaltare l'individuo e l'impossibilità pratica di
conciliare le esistenze dei singoli - i loro sogni, i loro smarrimenti,
le loro presunzioni - con l'impianto solo in superficie rigoroso e
finalizzato di una realtà sul serio slabbrata e ormai perlopiu'
incomprensibile, tenuta assieme da una frenesia dissipatoria che Hyppo
prova a gestire con la rinuncia e una calcolata apatia e Natalie,
propositiva e fiduciosa, s'illude ancora di poter, bene o male,
cavalcare, ma da cui entrambi, in maniere diverse, si sentono tenuti in
ostaggio, oltreché, sottopelle, umiliati. In tal senso - nel corpo di una Parigi di corsa,
seduttrice opaca e brutale nello splendore ingannevole dei suoi annosi
boulevard - Hyppo, seguito passo passo dalla mdp di Rochant, nonché sostenuto dalla
progressione decisa e inquieta della partitura-guida per piano di
Gerard Torikian, si sposta su ciò che resta delle impronte di un
immaginario cinematografico tipicamente francese come dovesse o fosse
ancora possibile saldare la strafottenza lunare dei non-eroi godardiani
al tipico gusto-del-negativo tardo moderno, inodore, insapore ma capace di pervadere e, all'occorrenza, recidere tutto, anche gli scampoli di un maledettismo magari
spendibile sebbene, comunque, fuori tempo massimo, così come i vincoli
ideali e romantici di un ipotetico Antoine Doinel scaraventato dalla
meraviglia dell'incontro/rivelazione col mare all'iper-parossismo
omicida del carnevale dei topi contemporaneo.
Armato
nonostante tutto di un insopprimibile vitalismo, declinato per
sottrazione nelle fogge di una difesa strenua di ciò che l'interiorità
non vuole smettere di dettare e si rifiuta di spartire con un contesto
umano, psicologico e morale sostanzialmente indifferente nella sua
equanime crudeltà ("Cosa sei, una macchina ?", apostrofa stranita
Natalie. "Una macchina per vivere", ribatte secco Hyppo), Hyppo finisce
così per opporre alla sua stessa rassegnazione la forza nuda di una
coerenza più sistematica e coriacea rispetto alla risolutezza
programmatica e persuasa solo negl'intenti di Natalie, a ben vedere, in
fondo, molto più conformista nell'aderire a modelli di comportamento che
traggono la loro legittimità per gran parte dalla passiva
reiterazione/condivisone su larga scala.