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Un musical sul capital-comunismo cinese

Da Brunougolini

Un musical sul capital-comunismo cinese
“Dove andiamo? Che cosa desideriamo?” Sono due domande che per-corrono l’atmosfera un po’ surreale di “Office”, il film presentato in 3D alla Fe-sta di Roma e dovuto alla nota abilità di Johnnie To. Un regista di Hong Kong considerato di culto, con alle spalle un esteso bottino di film (Vendicami, E-lection, Life without Principle, Breaking News, Exiled, Mad Detective, Drug War). Questa volta abbandona le tematiche “noir” per darsi a qualcosa che assomiglia a un musical. E infatti quelle frasi citate sono tratte da una delle tante canzoni che costellano “Office”. I personaggi (con Sylvia Chang, Chow Yun Fat, Eason Chan, Tang Wei, Lang Yueting, Wang Ziyi) appaiono infatti ostentatamente alla ricerca di nuovi traguardi, apparen-temente solo materiali.
L’ambiente è quello della finanza di Hong Kong, un territorio oggi appendice della Cina, anche se mantiene una sua autonomia rispetto al partito di Mao. Vediamo così i protagonisti muoversi freneticamen-te attorno a telefoni, computer, ascensori, sotto un’enorme ruota-orologio. Sono “colletti bianchi” al servizio di una grande società finanziaria, la Jones & Sunn, costretti a una condizione di lavoro ossessiva. Le loro mansioni, scandi-te da orari precisi, potrebbero ricordare il lavoro a catena immortalato da Charlie Chaplin in “Tempi Moderni”. E anche questi sono tempi moderni, i nostri tempi.
Siamo nel 2007-2008 e sta per scatenarsi la grande crisi portata da altri imperi della finanza in Usa, con il crollo della Lehman Brothers. Ed ecco un intreccio di ambizioni, competitività, crudeltà,tra il grande boss e i suoi adepti. Una tempesta che in qualche modo, anche qui, potrebbe ricordare un altra opera, certo di ben altro significato, quella dovuta a Bertold Brecht con la sua “Opera da tre soldi”. Qui i soldi sono davvero tanti e il Mackie Messer dagli occhi a mandorla rappresenta bene il capitalismo feroce che risorge sempre. Mostrando così di essere, certo, non una semplice “tigre di carta”, vi-sto che i suoi sussulti incidono sullo stato del mondo ben più di tutte le “spending review” o le diverse “leggi di stabilità”.
“Office, insomma, è un emblema dei nostri giorni. Un luogo chiuso dove si scontrano, spesso cantando, amori e rancori. Con il giovane precario che poco a poco s’impadronisce del gioco e ottiene il successo, finendo con il fi-danzarsi con la figlia del padrone che a sua volta fa le scarpe alla direttrice amante del boss. Il quale, con un’annotazione più adeguata a una soap-opera, da anni veglia la moglie in coma.
Un racconto che in qualche modo prende in giro questo impasto tra capi-talismo frenetico e il sovrastante presunto comunismo cinese. Cosicché un critico made in Usa ha scritto che in “Office” “le rigide credenze del comuni-smo sono state essenzialmente rimpiazzate da una differente ma non meno soffocante conformità. Essa appare in uno dei cori intonati: “Guarda, noi siamo le elite sociali! Guarda noi costruiremo un impero finanziario con i nostri cuori”.

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