[UNO]
DUE
La prima volta era accaduto meno di una settimana prima. Poi il sogno si era ripetuto, variando pochi minimi dettagli. Adesso gli era impossibile coricarsi sereno, consapevole che un lago nero si andava espandendo nella mente senza incontrare ostacoli. Portandolo al risveglio con l’idea di aver lasciato indietro un compito importante. Che, gli suggeriva l’istinto, non coincideva del tutto col senso del sogno.
l corridoi del Palazzo di Giustizia erano lunghissimi, e avevano larghezze giustificate solo dal potere che esprimevano, eredi di un epoca in cui a questo andava data un’enfasi severa, ma nell’arredamento denunciavano il tempo presente. Poche e scarne vedute della capitale e, nei salottini (sorta di improvvisi slarghi nei muri, aree di sosta per le anticamere di pregio), si gloriavano grandi ritratti dei vari funzionari, busti appuntati di stellette, sorrisi da attore di grido, e, per le donne, capelli cotonati al limite del volo in mongolfiera. Quando si incrociavano tra loro, i corridoi quasi non si salutavano, avevano angoli retti più retti del normale, e si schivavano l’uno con l’altro lasciandosi dietro rapidi saluti militari.
- Ministro, è per stasera. E sta’ attento, sospettano di te.
Aveva parlato, in fretta uno dei ragazzini, fissandolo negli occhi il tempo di proferir parola. Ivan, Yurij, Sacha? Non ricordava il nome di quel figlio del popolo, e poi cosa importava, si era introdotto fino lì con la sua truppa di scalcinati pari, erano cinque in tutto (nemmeno uno di loro era, anche lontanamente, sovrappeso). Aveva parlato. Sapendo di poter essere colpito, sapendo di rischiare il tradimento. A lui, a Cesar Andreevic, era saltato il cuore in gola quando se li era visti attorno, sbucati da chissadove all’improvviso. Era giunto in veste di alleato oppure di nemico?
Ma, nell’abito della sua funzione, e avvezzo da tempo a recitare finzioni, aveva bloccato con un cenno sicuro le guardie del corpo, altri figli del popolo, sicuramente al soldo del più forte, e dunque, in quel momento, al suo. Disse loro di andare a farsi un giro.
Ricevuto il messaggio, batté le ciglia solo una volta più del giusto, ma senza scomporsi. Prese in tasca e consegnò a ciascuno pochi spiccioli, insufficienti anche per un pacchetto di gomme. Quando con un gesto impacciato li invitò ad andarsene, era in ritardo. Già tra loro correvano diversi metri di tappeto di galleria (del tipo meno economico, ma che qualsiasi abitante si sarebbe procurato comunque a poco prezzo dal vicino Oriente).
Ripreso il cammino, e fatti pochi passi, Cesar si voltò di scatto, cogliendo di sorpresa gli uomini che lo precedevano, lasciandoli bloccati in una posa incerta, in attesa di istruzioni chiare. Gli era parso di essere chiamato per nome, ma più come uno scherzo della mente. La lunga fuga del corridoio era vuota. Non c’era più nessuno.
Allora era arrivato il momento. Agire. Abbandonare certezze e agi e prepararsi a fare un tuffo nell’ignoto. Una scossa elettrica lo attraversò da capo a piedi. Dovette fare un respiro più profondo per convincersi a riprendere il cammino.
Affrettò il passo fino a raggiungere quasi in apnea la sala conferenze dove si sarebbe tenuta l’ultima riunione di partito. Era una data storica, quel giorno. Fuori il palazzo infuriava, incendiaria, la tempesta degli studenti, ma l’Apparato non aveva disdetto il fattore scatenante: Entro una manciata di ore sarebbe avvenuta la nomina del Presidente a Reggente con mandato nientemeno che divino, sancita sotto la benedizione del massimo esponente della Nuova Chiesa.
A questo punto entrava in scena Cesar con la doppia faccia delle sue informazioni.
In ostilità aperta col partito, una frangia di contestatori segretamente vicini ai generali più in vista avrebbe tentato di delegittimare il Presidente davanti a tutti i media nazionali.
Cesar scosse la testa. Ora sapeva: non avrebbero sortito l’effetto. Non sarebbe stato un colpo di stato militare a spodestare il tiranno, quando era già pronta la contromossa. Il palazzo sarebbe stato subito circondato dai fedelissimi del Capo, appena iniziato il discorso del Generale K.
Fuori, una folla di centinaia di prezzolati dal potere avrebbe soffiato sul fuoco tenuto malamente a bada dagli agenti in piazza, avrebbe agitato cartelli e striscioni di sostegno al Buon Padre del Paese. Gli studenti, per reazione, avrebbero aperto gli scontri, cercato di forzare le difese del palazzo, e dall’inevitabile difesa sarebbe scaturito un nuovo ordine delle cose. Un equilibrio più funzionale al nuovo assetto geopolitico mondiale.