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Il più precoce dei sentimenti legati alla depressione è la vergogna.
Come ben racconta la regista Alina Marazzi Hoepli sul Corriere della Sera del 18 dicembre 2002, è stata proprio la vergogna che la sua famiglia natale nutriva per sua madre Liseli Hoepli (morta suicida nel 1973 a soli trentatré anni) a spingerla a realizzare un film - documento trasmesso per la prima volta la sera dell’intervista e costruito a partire da alcuni filmini amatoriali eseguiti (e tenuti nascosti per vent’anni) dal nonno Ulrico Hoepli, il famoso editore del dopoguerra.
Il film racconta la vita di una donna che soffriva di una malattia oggi normalmente chiamata depressione, ma che solo trent’anni fa, nella famiglia “perbene” Hoepli, veniva indicata vergognosamente con il termine di “bizzarrie umorali”, a testimoniare il riserbo e l’imbarazzo che aleggiava intorno alla malattia della tristezza che, per una famiglia alto-borghese come quella in cui cresceva Alina, rappresentava una grande vergogna.
Quello che segue è preso da qui:
http://erewhon.ticonuno.it/2003/storie/unorasola/alina.htm
Alina cuce insieme un tessuto che è dei più fragili e delicati; un tessuto che ogni volta che si lacera provoca dolore, perché le emozioni fanno parte della sua trama. Va quindi trattato con estrema attenzione, con dita sapienti che sappiano restaurare un pizzo antico, e lei ci riesce con ammirevole equilibrio.
Tratteniamo il fiato ogni volta che sfiora un punto più corroso, temendo di vederla cadere - e noi con lei - nel sentimentalismo e nell'angoscia.
E invece alla fine usciamo dalla sala con un senso di leggerezza, dopo aver accompagnato questa giovane donna - sua madre - attraverso una malattia esistenziale che la porterà alla morte. Lo sappiamo fin dall'inizio, eppure nel film non si vede, anche se è lì, inevitabile come nella realtà.
Liseli Marazzi Hoepli
Nelle prime sequenze sentiamo la sua voce scherzosa che gioca con i figli, la vediamo il giorno delle nozze e quel suo sguardo lontano, che sembra presagire passato e futuro e che ci accompagnerà in tutto il film, ci fa fare un salto indietro nel tempo, alle immagini del corteggiamento dei suoi genitori, negli anni venti.
Siamo in una ricca famiglia borghese, quella dell'editore Ulrico Hoepli. Certo, nel 1926 non tutti potevano permettersi una cinepresa, né auto eleganti e vacanze al mare e in montagna.
Anche la memoria, viene da pensare, è un lusso che appartiene ai ricchi. Nella stessa epoca i poveri avevano al massimo una fotografia in posa del giorno delle nozze e i loro figli e nipoti non avevano né abiti d'epoca da conservare né case in cui si potessero accumulare i ricordi.
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Come in un buon romanzo, è importante la cornice in cui si svolge perché lo spettatore possa partecipare anche a un mondo che non gli appartiene.
Ed è importante per capire la storia di Liseli, la protagonista, che da questo ambiente si sente schiacciata, come se si sentisse sempre inadeguata rispetto ai modelli con cui è cresciuta: la madre, una madre perfetta mentre lei si sente incapace nei confronti dei figli, un padre troppo autorevole ed esigente, e perfino l'amore fra i suoi genitori, nonostante lei stessa viva una vera storia d'amore che l'accompagnerà fino alla fine.
E anche i soldi, che le verranno rinfacciati nel momento in cui serviranno a pagare le case di cura per una malattia che è difficile accettare come tale, soprattutto in quel periodo a cavallo fra gli anni sessanta e settanta.
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Ci sono poi i suoni e i rumori: canzoni dell'epoca, suoni originali registrati, rumori d'ambiente e pensieri ad alta voce.
Già il motivo che dà il titolo al film ha diversi strati di significato (un'ora è anche la durata del filmato) e si ripete nella versione originale del 1938 (allora la cantava Fedora Mingarelli) fino a una delle, più rare, versioni cantate da una voce maschile alla fine degli anni sessanta: gli Showman, un gruppo oggi poco ricordato, ma che allora ebbe un grande successo proprio con questa canzone.
E, naturalmente, le immagini, che sono forse il materiale più corposo, ma che non avrebbero la stessa forza se non fossero così strettamente cucite con gli altri mezzi.
Si passa dal bianco e nero al colore, dalle immagini in movimento alle fotografie, al sovrapporsi di pagine scritte e documenti; alcune immagini, come alcune frasi, continuano a ricorrere, segnando un legame nel tempo e un ripetersi di emozioni simili in contesti diversi.
"Un'ora sola ti vorrei", di Bertini-Marchetti, è una canzone che ha una storia particolare. Quando uscì, nel 1938, fu considerata irriverente dal regime fascista. Come altri brani dell'epoca, le sue parole si prestavano a un doppio senso riferito al Duce.
Da allora ha accompagnato praticamente tutte le generazioni, riproposta periodicamente in numerose cover.
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