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Un Oscar per Lampedusa

Creato il 29 settembre 2011 da Faustodesiderio

La nave, il mare, la vita, la morte, la disperazione, la speranza. Non poteva che essere il film di Emanuele Crialese, “Terraferma”, ad essere candidato agli Oscar quale miglior film straniero. E, trattandosi di un film italiano, non poteva che parlare di emigrazione. Perché noi italiani in America ci andiamo solo da emigranti. Qualunque mestiere facciamo, qualunque fede abbiamo, qualunque sia la nostra condizione sociale e la storia che abbiamo da raccontare, siamo sempre emigranti. Il primo fu quel Colombo là che dell’emigrazione è stato il massimo teorico e praticante. Lui il Nuovo Mondo lo ha scoperto unicamente per consentire ai suoi connazionali di emigrare in America. Altroché.

“Terraferma” è stato definito “poesia civile”. Può darsi. Certamente il regista italiano sa fare bene il suo mestiere. Soprattutto guarda il mondo e lo esprime senza gli occhiali dell’ideologia. Lui stesso ha detto che il suo spettatore ideale è un ragazzino di sette anni. I bambini ascoltano le storie e le favole e il film di Crialese vuole essere una storia per immagini parlanti. Se sei in alto mare e stai pescando  – può capitare anche questo nella vita, magari di essere figlio di una famiglia di pescatori -  e il vento e le onde ti portano una nave senza timone e carica di naufraghi, non ti fai tante domande e ti dai da fare per salvare chi la tua bravura, il cuore e il buon Dio ti permetteranno di non seppellire nel Mediterraneo. La “favola civile” di Crialese inizia qui, in alto mare e finisce lì, sulla “Terraferma” dove inizia un’altra storia perché la “legge del mare” entra in conflitto con la “legge della terra” o dello Stato. Noi pensiamo che sia una novità dei nostri giorni, ma è sempre stato così, perché terra e mare  - come ha raccontato una volta Carl Schmitt -  sono l’opposizione fondamentale.

Gli italiani che si trovano alla lettera in mezzo al mare sono emigranti per definizione. Non hanno, se non pochi di noi, grande confidenza con il mare. Siamo in mezzo la mare ma siamo gente di montagna. Sarà per questo che pur girando mezzo e più mondo facciamo sempre la figura della gente di paese. L’America ci ha sempre accolto a braccia aperte proprio perché siamo il prototipo dell’emigrante internazionale. Quando un italiano va in America  – non importa se sconosciuto o famoso -  non va in America ma vi “sbarca”. Possiamo anche andare per conquistare o per conoscere o per vendere o per trattare ma ci andiamo sempre con l’animo e il pensiero di chi “parte per terre assai lontane”. Persino Alcide De Gasperi quando andò negli Stati Uniti per essere alleato e per chiedere un po’ di dollari ci andò come emigrante politico. E’ un po’ come quell’episodio molto vero che ritorna come leit-motiv nel primo film di Massimo Troisi “Ricomincio da tre”. Lo ricorderete senz’altro: il napoletano Gaetano è in viaggio e ogni volta che incontra qualcuno si sente dire: “Ah, lei è napoletano. Emigrante?”. E ogni volta Gaetano-Troisi con santa pazienza deve spiegare che non è emigrante ma solo in viaggio: “Qua pare che il napoletano non può viaggiare ma solo emigrare”. Alla fine, però, Gaetano non ce la fa più e all’ennesima osservazione  – “Ah, è napoletano, emigrante?” -  si arrende e fa: “No, sì, sì sono emigrante”.

L’italiano è un napoletano al quadrato e quindi un emigrante suo malgrado. Il film di Crialese è bello e poetico perché il regista sente che la terra sotto i piedi gli balla e la vita esprime la sua vera essenza in una condizione acquatica più che terrestre. L’acqua non è afferrabile, sfugge e non si lascia governare anche se si conosce la rosa dei venti e la rotta delle stelle. Tuttavia, senza acqua non si può vivere. La terra è ferma e sicura, ma una terra asciutta e arida è più inospitale del mare in tempesta. Gli emigranti scappano da una terra senza acqua e pur di trovare una terra più sicura e ricca decidono di andare per mare anche se non sanno nuotare. Gli italiani che sono partiti sui “bastimenti” hanno condiviso la stessa visione delle cose. Non avevano la pelle nera, ma un meridionale che sta un paio di settimane sotto il sole ha una pelle non molto diversa da quella di chi è dall’altra parte del Mediterraneo.

Nel film di Crialese c’è Filippo Pucillo di Lampedusa che interpreta se stesso. Dice: “Io sono lampedusano e nel film rappresento me stesso. Conosco il dramma dei migranti. Sono esseri umani. E poi a me sembra giusto aiutare chi viene dal mare. Dov’è il problema?”. Infatti, dov’è il problema? Semmai, in mare il problema è il contrario: è ingiusto non aiutare. Ma sulla terra le cose cambiano, proprio come sono cambiate e cambiano e cambieranno a Lampedusa ogni volta che la terra non basta più o ogni volta che lo Stato non c’è più. Crialese lo racconta. Gli americani che giudicheranno se il suo film migrante è da Oscar o no se ne renderanno conto. Anche a loro, agli americani, è andata bene. Avrebbero potuto sciropparsi il film della coppia emme-emme: Moretti-Martone che ha prodotto “Habemus Papam” e “Noi credevamo”. I loro film non parlano a quel ragazzino di sette anni che conosce Emanuele Crialese.

tratto da Liberal del 29 settembre 2011



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