5 settembre 2012 Lascia un commento
(Recensione completa qui)
C’era stato un tempo, nel passato, in cui lui, Bob Arctor, non viveva in quel modo, con una calibro 32 sotto il guanciale, uno spostato nel giardino posteriore a sparare per Dio solo sapeva quale motivo, e qualche altra zucca vuota, se non proprio la stessa, che aveva imposto un’impronta cerebrale di se stesso cortocircuitando un cefoscopio costosissimo e pregiato, che tutti in quella casa, e tutti i rispettivi amici, apprezzavano e utilizzavano per rilassarsi. In quei giorni ormai passati, Bob Arctor aveva condotto i propri affari in maniera molto diversa: c’era stata una moglie, in tutto simile ad altre mogli, c’erano state due figliolette, e una fissa dimora che veniva spazzata, pulita e svuotata dei rifiuti ogni giorno, coi giornali vecchi mai aperti portati puntualmente dal vialetto anteriore al bidone della spazzatura, oppure, a volte, addirittura in casa per essere letti. Ma poi un giorno, mentre sollevava la padella per i popcorn da sotto il lavello, Arctor aveva battuto la testa contro uno spigolo dell’armadietto da cucina giusto sopra di lui. Il dolore, quel taglio nel cuoio capelluto, così inatteso e immeritato, gli aveva per chissà quale motivo dissipato le tenebre. Come in un lampo gli era stato chiaro, allora, che lui non odiava quell’armadietto: odiava sua moglie, piuttosto, le due figliolette, il garage, l’impianto di riscaldamento, il giardino davanti casa, lo steccato, e tutto quel posto fottuto e chiunque mai ci vivesse. Voleva divorziare. Voleva battersela. E così aveva fatto, quanto prima gli era stato possibile. E quindi era entrato, per gradi, in una vita nuova e cupa, dove non v’era più nulla di tutto quello.
Probabilmente avrebbe rimpianto quella decisione, prima o poi. Ma non l’aveva ancora fatto. Quella vita era stata priva di stimoli, senz’alcun rischio. Troppo sicura, lutti quegli elementi che la costituivano sarebbero stati giusto lì davanti ai suoi occhi per sempre, senza che mai avesse potuto attendere da loro nulla di nuovo. Sarebbe stata, aveva pensato una volta, come una piccola barca di plastica che avrebbe virtualmente continuato a navigare per sempre, senza incidenti, fino al giorno in cui non fosse affondata, con grande e malcelato sollievo di tutti.
Ma nel mondo oscuro nel quale ora dimorava, traboccavano costantemente verso di lui cose orribili e cose sorprendenti e, una volta ogni tanto, di rado, qualche piccola mirabile cosa. Non poteva contare su nulla. Neanche sul suo cefalocromoscopio Altec, intenzionalmente e malvagiamente danneggiato, su cui aveva edificato il momento di piacere delle sue giornate, il segmento del giorno nel quale tutti loro si rilassavano e si lasciavano andare. Da un punto di vista razionale non aveva alcun senso, per chiunque mai l’avesse fatto, danneggiare il cefoscopio. Ma lì, in quel suo nuovo mondo, fra quelle lunghe oscure ombre della sera, poche fra le cose che accadevano potevano dirsi razionali, almeno in senso stretto. Quell’azione, di per sé enigmatica, avrebbe potuto essere stata compiuta da chiunque, e per una ragione qualunque. Da una qualsiasi persona, fra quelle da lui conosciute o semplicemente incontrate. Una qualsiasi fra otto dozzine di balordi, fricchettoni, cervelli spappolati, tossici oramai imbambolati, paranoici di natura psicotica con rancori allucinatori messi in scena nella vita reale, e non nella fantasia. In realtà, avrebbe anche potuto essere qualcuno che non aveva mai incontrato, e che lo avesse estratto a caso dall’elenco del telefono.
O anche il suo migliore amico.