Anche Renzi, come molti altri prima di lui, si è lanciato nella terribile litania: "il mercato del lavoro italiano tornerà a crescere, solo se diventerà più flessibile", un mantra che la politica ci propina dal lontano 1997, anno dell'introduzione del Pacchetto Treu, la prima legge precarizzante.
Qualche dubbio sulla bontà di questa affermazione, sarebbe già dovuto sorgere in molti, dati i risultati disastrosi che la precarizzazione del posto di lavoro ha portato all'Italia ed è basata, sostanzialmente, su due menzogne.
1. Il contratto a termine è l'anticamera del contratto a tempo indeterminato. Poteva anche essere vero nei primi tempi, ma ha cessato ben presto di esserlo e non a causa della crisi, come molti sostengono. Quasi da subito, infatti, i contratti a tempo determinato hanno cominciato ad erodere terreno, avviandosi con decisione verso il sorpasso, come certificato dall'Istat nell'estate del 2013, con il crollo dei tempo indeterminato al 53% del totale della forza lavoro italiana. Un discesa costante e che non accenna a fermarsi.
Ultimamente, poi, ci ha pensato anche l'UE a smentire i fan della flessibilità: nel rapporto trimestrale sull'occupazione, infatti, si legge che, in Europea in generale e nei Paesi del Sud in particolare (Italia compresa), si è riscontrato un calo drastico dei contratti a tempo indeterminato, mentre aumentano sempre più i contratti precari ed i part-time che, il più delle volte, non sono seguiti da nessuna stabilizzazione lavorativa.
2. Il costo del lavoro. E' la seconda menzogna su cui si basano le politiche precarizzanti: Articolo 18, contributi salariali e welfare sono le zavorre che rendono il mercato del lavoro troppo rigido e costoso, togliendo competitività all'Italia. Niente di più sbagliato. Da parecchi anni, ormai, il costo medio orario di un lavoratore italiano è in lento, ma costante calo, tanto da essere sceso al di sotto della media europea: 28,1 € l'ora (tenendo conto sia del salario che delle tasse) contro i 28,4 dell'intera area europea, collocandoci in una posizione di medio-bassa classifica.
Eppure, la disoccupazione macina record (salita al 13% nei primi mesi del 2014), sempre più imprese italiane delocalizzano all'estero e quelle straniere si guardano bene dall'investire nel nostro Paese e il motivo ce lo rivela l'Eurostat: siamo quarti, in Europa, nella classifica della tassazione più alta sui salari. Stipendi bassi e tasse alte, quindi: proprio un bel connubio.
Un connubio, però, che non è certo figlio dell'Articolo 18, nè dei contratti a tempo indeterminato, nè del sussidio di disoccupazione, ma della malapolitica che ha generato sprechi e corruzione, problemi che ora i partiti stanno gettando sulle spalle dei cittadini e dei lavoratori, utilizzando strumenti come il precariato, la cui ultima incarnazione, in ordine di tempo, è il Jobs Act renziano.
Il progetto del rottamatore sta entrando nel vivo, grazie alla stesura del decreto legge da parte del Ministro del Lavoro Poletti, che – fortunatamente – sta incontrando numerose critiche e resistenze, anche all'interno della stessa maggioranza di Governo.
Le perplessità maggiori derivano, soprattutto, dalla durata dei contratti a termine (36 mesi) e dal numero massimo di rinnovi (fissato in 8), tanto che la minoranza Pd, guidata da Cuperlo, sta preparando un proprio documento: durata dei contratti precari fissata a 24 mesi, numero dei rinnovi ridotto e incentivazione alle assunzioni a tempo indeterminato.
Il Ministro Poletti apre uno spiraglio al dialogo, ma neanche tanto grande: il succo del decreto legge, che porta il suo nome, non si discute, sostenendo che, ormai, è solo attraverso il contratto a termine che i lavoratori, soprattutto i giovani, riescono ad entrare nel mercato del lavoro. Purtroppo ha ragione da vendere: è la deriva cui è andato incontro il nostro sistema, è la grande beffa che ci hanno rifilato, con un paio di menzogne.
Danilo