Certo, lo erano. Ma anche a chi è in malafede può capitare di dire cose vere. Siamo chiari: è stata superata una soglia oltre la quale c’è un pericolo gravissimo. Non solo lo scollamento definitivo tra la politica e i cittadini, che c’è già e si sta facendo rovinoso, ma l’ipotesi che compaia sulla scena qualcuno per cui questo disastro sia un punto di partenza. Le difficoltà materiali che stanno soffocando strati sempre più ampi della società italiana e la disperazione che si sta diffondendo possono diventare molto rapidamente quel punto di partenza se non si riapre – presto, subito – una prospettiva.
Chi conosce la storia europea del Novecento può cominciare a tremare. L’impasse in cui si sta cacciando la politica italiana non è molto diversa da quella che portò alla perdizione la Repubblica di Weimar. E sa che c’è, a un certo momento, un punto di rottura. Quando la politica fallisce la demagogia prende il suo posto e chi la sa cavalcare senza scrupoli vince la partita. Allora i cittadini diventano la “gente” e alla “gente” è fin troppo facile indicare obiettivi e interessi che in realtà vengono decisi da chi ha il potere. Finora non è accaduto. Con le loro follie, i loro errori e i loro meschinissimi tatticismi Grillo e i suoi hanno fatto molti danni, ma non hanno superato quella soglia. In qualche modo il capo di Cinque Stelle ha ragione quando dice di aver sventato il pericolo che la protesta diventasse violenta e incontrollabile.
Però i partiti responsabili debbono essere consapevoli del fatto che quella soglia non è una metafora, ma un fatto reale. Lo stallo della politica provoca effetti concreti e immediati sulla vita delle persone. Non ci sono solo quelli che derivano dalla mancanza di un governo e di un Presidente della Repubblica che ne possa nominare uno. Quelli che il blocco della continuità amministrativa provoca nel tessuto economico, le imprese che chiudono, la cassa integrazione senza più fondi, i consumi che crollano. Ancora più pesanti rischiano di essere quelli immateriali: la caduta delle speranze, lo spaesamento, la sfiducia in tutte le manifestazioni organizzate del vivere sociale. In Italia ci sono moltissimi disoccupati, soprattutto tra i giovani. Ma il fenomeno più grave, difficile da calcolare, non è tanto la massa di chi ha perso il lavoro o non lo trova, ma non lo cerca o non lo cerca più. Si sta creando un paese senza speranza. Fin qui il ragionamento è facile. Molto più complicato, certo, è il “che fare” per uscire dall’impasse.
Il Partito democratico ha davanti a sé una responsabilità enorme e difficoltà formidabili. Ma la premessa non può che essere quella di una chiara percezione del fatto che quella soglia è stata davvero, irrimediabilmente, superata e che da qui in poi si cammina su un terreno inesplorato. Le condizioni del suo operare sono cambiate ed è urgentissimo prenderne atto sul serio, senza retropensieri, senza calcoli sugli interessi di questo o quel gruppo. Non è solo la condizione della sua sopravvivenza come partito (e lo è davvero come la cronaca di queste ore ci fa drammaticamente vedere), ma anche di ogni possibilità che ha la politica italiana di ritrovare se stessa, salvando il paese e preservandolo dalle avventure possibili. Ritrovare la sintonia con il paese, non è, allora, una formula scontata, banale.
È una necessità fortissima cui cominciare a rispondere subito con decisioni e atti concreti. Quali? Spetta ai dirigenti e ai militanti del Pd indicarli. Ma l’impressione che la vicenda politica di questi pesantissimi giorni ci consegna è che la prima correzione da fare, in qualche modo da imporre a se stessi con un atto di volontà, sia ritrovare la propria capacità di esercitare egemonia, di non chiudersi nelle paure, nella tendenza a sentirsi in sintonia soltanto con chi interpreta la politica e il confronto con i metodi e il sentire che ci sono consueti