Magazine Famiglia
Quella sera, per addormentarsi, mi chiese di raccontargli qualcosa di vero che mi era accaduto da bambino. Non so come ma la prima cosa che mi venne alla mente fu un episodio antecedente al 1979: la mia mamma aveva cucinato l'aringa. Io ero schizzinoso - lo sono rimasto per anni - e l'odore dell'aringa mi faceva proprio vomitare. La mattina dopo avevo deciso di farmi una tazza di latte con i biscotti. Non so se fu la suggestione d'aver visto una macchiolina nel bricco per scaldare il latte, non se se fu l'odore ancora presente in cucina o non so se fu davvero la persistenza dell'aringa ma ricordo che il latte mi fece davvero schifo. Mi sembrò all'aroma di aringa e piantai una supergrana con la mia mamma.
Dopo il racconto un bacio e via verso le braccia di Morfeo.
Qualche giorno dopo la mia mamma mi ferma per raccontarmi che Samuele le aveva raccontato di come io, da piccolo avessi quasi vomitato una tazza di latte perché nel pentolino lei aveva cucinato un pesce che "forse si chiama troia" (trota NDR). Lei non ricordava assolutamente l'episodio ed era rimasta sorpresa da come io lo ricordassi con nitidezza.
Questa cosa mi fa riflettere su come i bambini siano (al netto della volontà di nonni e genitori), un elemento di raccordo fra generazioni. Dentro di me, probabilmente, qualcosa ha chiesto a lui di far sapere ai miei genitori quanto quell'episodio reclamasse un chiarimento (roba da ridere a distanza di qualche decennio, no?). Insomma, volenti o nolenti i bambini aiutano i genitori e i nonni a dirsi quelle cose che non si direbbero mai. Tutto questo è molto bello ma anche molto pericoloso.
Essere messaggero non è cosa da poco, specie se qualcuno inizia a "sfruttare" un esserino di pochi anni d'età per veicolare messaggi che è difficile recapitare di persona. Se accade in modo leggero e inconsapevole è pura magia della vita, se diventa usuale e infido è proprio brutto.
Quanto difficile - mi domando - può essere dirsi tutto. Quanto un genitore può soffrire muto mentre vede suo figlio allontanarsi per fare la propria vita? Quanto dolore muto può esserci nel vedere un figlio soffrire? Quanto non detto può esserci nel silenzio di un padre che vede suo figlio crescere e non riuscire a realizzarsi? Quanto vorrei ma non so come può esserci negli occhi di chi ha messo al mondo una creatura per vederla diventare prima dottore, poi "masterizzato", poi stagista e poi precario a vita? Quanta rabbia nel cuore di una famiglia che vorrebbe semplicemente equità per i propri ragazzi? Quante parole dette solo con la mente, con i gesti ma mai con la voce?
Si dice che l'arrivo di un bimbo sia sempre e comunque una gioia. È così e forse lo è anche per questo.
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