Un pianeta poco puntuale

Creato il 31 ottobre 2014 da Media Inaf

Non si può certo dire che sia un tipo puntuale PH3c, il nuovo esopianeta scoperto da un team di ricercatori capeggiato da Joseph Smith dell’Università di Yale negli Stati Uniti. La sua “creatività” nel transitare davanti alla stella madre aveva ingannato perfino i più sofisticati algoritmi automatici che analizzano le minuscole variazioni di luce di Kepler-289, uno dei migliaia di astri monitorati dalla missione Kepler della NASA. E così, forse, nessuno avrebbe saputo mai di quel pianeta distante quasi 3.000 anni luce da noi, attorno a una giovane stella di massa simile al Sole, in direzione della costellazione del Cigno.

Ma dove non arriva la precisione e la potenza dei calcolatori, ci pensa qualcosa che ancora solo gli esseri umani possiedono: il colpo d’occhio. Che stavolta però non è stato sfoderato dai ricercatori ‘ufficiali’ ma dai tantissimi appassionati – quasi  300.000 in tutto il mondo – che partecipano al programma Planet Hunters. I planet hunters mettono a disposizione un po’ del loro tempo per analizzare “a occhio” gli andamenti delle curve di luce raccolti incessantemente da Kepler, per confermare l’esistenza di candidati esopianeti o addirittura scovarne di nuovi, magari sfuggiti alle analisi automatizzate. Come nel caso di PH3c, le cui lettere della designazione stanno proprio a indicare le iniziali di Planet Hunter.

«Questo risultato è frutto del lato umano della scienza» commenta Debra Fischer, a capo del gruppo di ricerca sugli esopianeti dell’Università di Yale, coautrice dell’articolo sulla scoperta, pubblicato online sul sito della rivista The Astrophysical Journal. «I computer non possono trovare ciò che non si aspettano, cosa che invece sanno fare gli esseri umani, quando analizzano i dati con i loro occhi».

Segnalata così dai planet hunters questa anomalia nel tracciato della luce della stella Kepler-289, a studiarla approfonditamente ci ha pensato Smith e i suoi colleghi, che alla fine hanno confermato: attorno a quell’astro c’è anche PH3c, un pianeta con una massa circa quattro volte quella della Terra e con una bassa densità, probabile indizio di una composizione in gran parte di idrogeno ed elio. Abbiamo scritto “anche”, poiché per quella stella erano già stati confermati altri due pianeti (uno interno e uno esterno all’orbita di PH3C) dei quali ora, grazie a queste nuove indagini, conosciamo le masse: circa 8 e 132 volte quelle della Terra, rispettivamente.

«Questa scoperta è notevole da vari punti di vista» commenta Valerio Nascimbeni, dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Padova. «In primo luogo, le variazioni del periodo orbitale di PH3c ammontano a svariate ore, mentre nella maggior parte dei casi osservati finora le irregolarità si misurano in minuti se non addirittura secondi. Una peculiarità che ha reso più semplice la misura delle masse in questo sistema planetario, perché è appunto la massa del pianeta più esterno a esercitare una perturbazione gravitazionale e a provocare anticipi e ritardi nei tempi di transito di PH3b. Tale misura di massa è fondamentale perché ha permesso di ricavare la densità di PH3b, il che a sua volta ci dà indizi importanti sulla sua composizione. E qui viene una bella sorpresa: fino a tempi recenti, si dava per scontato che pianeti come questo, con un raggio pari 2 o 3 volte quello della Terra, fossero essenzialmente rocciosi. Ora sappiamo che non è sempre così: PH3b, al pari di un’altra manciata di pianeti analoghi scoperti da Kepler, ha una densità molto più bassa e assomiglia di più a un pianeta di tipo gioviano in miniatura che a una “super-Terra”. Naturalmente, ciò richiederà una revisione delle nostre teorie sulla formazione ed evoluzione dei sistemi planetari».

Per saperne di più:

  • l’articolo Planet Hunters VII. Discovery of a New Low-Mass, Low-Density Planet (PH3 c) Orbiting Kepler-289 with Mass Measurements of Two Additional Planets (PH3 b and d) di Joseph R. Smith et al. pubblicato online sulla rivista The Astrophysical Journal 
  • il sito web del progetto Planet Hunters

Fonte: Media INAF | Scritto da Marco Galliani


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