Appurato l’apparato formale, propongo un’obiezione: alla luce dei tre film, il sottoscritto ritiene che soprattutto negli ultimi due Andersson abbia sfiorato il pericoloso declivio dell’auto-manierismo. Che nei suoi intenti vi sia l’amaro ritratto della contemporaneità è un dato di fatto e ce lo prendiamo molto volentieri perché è sempre utile subire radiografie artistiche del genere, a lungo andare, però, la perseverazione metodica disloca il baricentro facendo affiorare quel gusto di girare così… soltanto per il gusto di farlo. Nel Piccione, ad esempio, ci sarebbe il sottotema del denaro (lo ricorda la bambina che il volatile sul ramo pensa all’assenza di soldi) ad infoscare il disegno, tuttavia dell’argomento ne rimangono soltanto brandelli qua e là (il ricordo del vecchio nel bar; il cliente dei rappresentanti che urla la propria indigenza dallo sgabuzzino), il resto è un periodare di Andersson fra caricature e bozzetti nella brina esistenziale che compenetra ogni essere sulla scena. Tenendo comunque conto di due parentesi che impressionano, parlo della duplice entrata del re nel bar e di quella degli schiavi trattati come caldarroste (il film è tutto qui: è vedere la morte), la sequenza di gabbie con dentro gli “animali” (homo sapiens? ) non ha la forza di toccare in pieno il nostro animo, e forse data l’asetticità illustrata non era nemmeno interessato a farlo, ma onestamente dal cinema, almeno io, umile appassionato, chiedo un briciolo di più.La semplice cronaca ci dice ad ogni modo di un inaspettato Leone d’Oro che nessuno aveva pronosticato. Per quanto possa vale un premio festivaliero (meno di zero, a Venezia la qualità latita da anni: Pietà[2012] appena passabile, Sacro GRA [2013] inguardabile), fa piacere il giusto riconoscimento ad un lavoro di nicchia protrattosi quasi quindici anni. _____________[1] Andersson ha anche un degno epigono: Ruben Östlund.
Appurato l’apparato formale, propongo un’obiezione: alla luce dei tre film, il sottoscritto ritiene che soprattutto negli ultimi due Andersson abbia sfiorato il pericoloso declivio dell’auto-manierismo. Che nei suoi intenti vi sia l’amaro ritratto della contemporaneità è un dato di fatto e ce lo prendiamo molto volentieri perché è sempre utile subire radiografie artistiche del genere, a lungo andare, però, la perseverazione metodica disloca il baricentro facendo affiorare quel gusto di girare così… soltanto per il gusto di farlo. Nel Piccione, ad esempio, ci sarebbe il sottotema del denaro (lo ricorda la bambina che il volatile sul ramo pensa all’assenza di soldi) ad infoscare il disegno, tuttavia dell’argomento ne rimangono soltanto brandelli qua e là (il ricordo del vecchio nel bar; il cliente dei rappresentanti che urla la propria indigenza dallo sgabuzzino), il resto è un periodare di Andersson fra caricature e bozzetti nella brina esistenziale che compenetra ogni essere sulla scena. Tenendo comunque conto di due parentesi che impressionano, parlo della duplice entrata del re nel bar e di quella degli schiavi trattati come caldarroste (il film è tutto qui: è vedere la morte), la sequenza di gabbie con dentro gli “animali” (homo sapiens? ) non ha la forza di toccare in pieno il nostro animo, e forse data l’asetticità illustrata non era nemmeno interessato a farlo, ma onestamente dal cinema, almeno io, umile appassionato, chiedo un briciolo di più.La semplice cronaca ci dice ad ogni modo di un inaspettato Leone d’Oro che nessuno aveva pronosticato. Per quanto possa vale un premio festivaliero (meno di zero, a Venezia la qualità latita da anni: Pietà[2012] appena passabile, Sacro GRA [2013] inguardabile), fa piacere il giusto riconoscimento ad un lavoro di nicchia protrattosi quasi quindici anni. _____________[1] Andersson ha anche un degno epigono: Ruben Östlund.
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