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Un piccolo male (prima parte)

Creato il 09 luglio 2013 da Violentafiducia0

Ho dormito tre ore e mezza. Addormentarsi a mezzanotte, svegliarsi alle quattro. Mi sveglio mezz’ora prima, preoccupata di non riuscire a svegliarmi. Mi alzo immediatamente dal letto per evitare di riaddormentarmi. Vado in soggiorno cercando di non fare rumore, apro le due portefinestre, metto su l’ultimo film di Crialese, pieno di mare e pescatori, gente che si butta in acqua per salvarsi e altra che si tuffa al ritmo di Maracaibo. Il buio silenzioso delle quattro del mattino da fuori si riversa nella stanza, con la sua aria fredda che a pensarla di giorno, sotto i trentaquattro gradi, quasi non ci si crede. A metà storia il dvd si blocca e io non saprò mai che ne è stato della donna africana che ha partorito a casa di Donatella Finocchiaro. Esco in balcone, da una fessura tra i palazzi guardo le luci che brillano dalla Calabria. Tra qualche ora sarò lì, penso. Seguo il filo sottile e scuro dell’orizzonte, con lo sguardo attraverso un palazzo e poi un altro e  lo ritrovo sopra la ferrovia, largo, abissale. Tra poco comincerà ad albeggiare, ma il sole sorgerà proprio dietro i due palazzi che ho attraversato con lo sguardo e io sarò troppo stanca per poterlo immaginare.

Il sonno che ho perso lo sento soprattutto nelle gambe. Tra le ginocchia e l’inguine ho due blocchi di carne senza muscoli e senza sentimenti. Le mie gambe finalmente le ritrovo tre ore dopo, piegate, sedute compostamente in macchina, coi finestrini chiusi per non sentire il rumore dell’autostrada, il rumore del vento che sbatte contro il parabrezza, contro la plastica degli specchietti, contro i fanali, contro il paraurti, contro le fiancate. Pensavo che sarei stata nervosa, irritabile, che la veglia avrebbe privato i pensieri della loro sostanza, che li avrebbe precipitati nel vuoto in cui li precipita quando dormire non è stato abbastanza. Invece sono lucida, indosso gli occhiali da sole nuovi, spero di arrivare in tempo per l’aliscafo delle nove e mezza e che il mal di testa arrivi il più tardi possibile.

Invece arriviamo il più tardi possibile, perdiamo l’aliscafo delle nove e mezza cercando parcheggio alla stazione. Finalmente scendo dall’auto e coi piedi intorpiditi presto attenzione a non calpestare i maleodoranti rivoli scuri che si allungano dai muri sui marciapiedi. Attraverso la stazione in cerca di un bagno. Nelle sale d’attesa le luci smorzate cancellano le ore e le stagioni, le panchine occupate dai senzatetto sono case aperte in cui non è concesso entrare. Qui ogni cosa è un eterno passato, senza bordi e senza la speranza di una fine. Mi viene in mente che su una di quelle panchine una volta ho aspettato mio padre, mentre ascoltavo Amburgo e un balordo mi passava vicino dicendomi “Stronza, tu mi ami“. E mi sento di nuovo in quel passato, innamorata e triste, senza nessuna possibilità.

Usciamo nel sole, senza luce. Nuvole basse navigano sopra le nostre teste. Ci sediamo su una delle panchine del terminal, vicino a noi una coppia di anziani che si tiene per mano e due ragazze con le zeppe e gli occhiali scuri. Mi guardo i piedi. Metto il biglietto dell’aliscafo in tasca. Poi lo tiro fuori e lo metto nel portafoglio. Poi lo tiro fuori e me lo rimetto in tasca. Controllo gli orari per il ritorno sulla tabella del terminal. Controllo l’orario della visita sull’agenda. Controllo di avere l’impegnativa del medico nella borsa. La tiro fuori e la metto nell’agenda. Chiudo l’agenda, chiudo la borsa. Riapro la borsa, prendo il cellulare, rispondo a un messaggio, ne scrivo un altro, ripongo il cellulare nella borsa. Lo tiro fuori dalla borsa e me lo metto in tasca. Guardo il mare.

“L’aliscafo per Reggio partirà dal pontile”, dice la signorina in divisa accasciata su una transenna. A una signora in fila chiedo “Scusi, è quello per Reggio?”. Non posso proprio permettermi di sbagliare, non posso arrivare a Villa, non posso telefonare al medico per dirgli “Scusi sa, ho sbagliato aliscafo”, non posso dormire un’altra volta tre ore, non posso provare questa rassegnazione, questa paura, questa confusione, questa rabbia un’altra volta. “Credo di sì”, risponde la signora.

Appena arriviamo non penso alla strada per l’ospedale, penso che è la prima volta che metto piede in Calabria, che il porto di Reggio è più bello di quello di Messina e la biglietteria è a forma di biglietteria e non a forma di container, che sul lungomare ci sono palme gigantesche e che se finiamo presto andiamo in un ristorante dove si mangia solo cibo calabrese. E mentre penso a questo volgo indietro lo sguardo per vedere da dove sono arrivata. Sono arrivata da un posto enorme, che sembra il mondo, che vuole essere il mondo, che si prende metà del cielo, che divora metà del mare, che occupa tutto lo spazio che serve a respirare, ad agire, a immaginare un futuro. Sono venuta da un posto immenso e prepotente, che ti ama e ti respinge come una madre.

Per arrivare in ospedale percorriamo ininterrottamente una strada in salita per venti minuti, un calvario assolato e deserto, una scuola chiusa, una copisteria dal nome ridicolo, una via col cognome di un attore, un semaforo senza il pulsante di chiamata. Oltrepassiamo il pronto soccorso, giungiamo fino all’ingresso pedonale, ancora scale, tutto in salita, salita, salita, quale vetta mi aspetta? Da quale altezza devo precipitare? Quale vertigine devo affrontare?

Un tabellone chiaro, con le scritte cubitali dei reparti, le frecce, il numero dei piani. Prendiamo il numero all’accettazione. 835. Servono il numero 819. Chiamano l’821, un ragazzo marocchino si avvicina allo sportello ma una giovane coppia lo anticipa per chiedere un’informazione al volo. Il ragazzo marocchino perde il turno, l’operatrice non vuole più servirlo, chiede di essere servito a un altro sportello, poi a un altro ancora. Non è più il suo turno. Un ragazzo prende le sue difese “Aspetta qui da un’ora, l’ho visto io”. Servono il ragazzo marocchino, servono il suo testimone. Chiamano il numero 830, si avvicina una donna dal passo incerto e i capelli mossi legati ma un’altra prende il suo posto, la prima non protesta. 831, 832, 833, 834, si presentano tutti. 835, mi avvicino allo sportello. La donna mi vede passare, capisce che qualcosa non va, perché non chiamano il suo numero? “Signora, lei ha il numero 803, non 830″ le comunica un’operatrice. La donna si innervosisce, si intristisce, agita le braccia in segno di frustrazione, quei numeri farabutti si sono scambiati di posto sul biglietto e chissà quanti altri numeri quante altre volte.
“Sono quarantatré euro e ottantuno”, dice l’operatrice che mi sta servendo. Siamo tutti qui per la stessa ragione, penso. Qualcosa nella stupefacente macchina che incamera ricordi, che chiede ai muscoli di tendersi, alla bocca di provare piacere, alla lingua di assaporare, al corpo di avere coscienza, agli occhi di chiudersi, alle parole di significare, alla voce di esprimersi, alla scrittura di mostrarsi, qualcosa, nel meraviglioso incanto che ci rende umani, ha fallito.


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