Per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti: Fabrizio De Andrè.
Sarà la forza delle lunghe sere ad ascoltare la cassetta di Storia di Un impiegato riversata da quella di Gavino, il mio storico compagno di banco. Sarà la forza delle emozioni e degli ideali che quando hai sedici-diciassette anni ti si scolpiscono dentro l’anima. Ma queste parole di Fabrizio De Andrè le ho sempre ritenute in cuor mio come una verità assoluta. L’11 gennaio di quindici anni fa De Andrè è andato via. Tutti noi abbiamo perso un grande poeta, ma forse lui si è risparmiato la discesa verticale di una società dove il potere, palese o occulto, sembra avere ormai travolto ogni anelito di libertà e fantasia.
Quegli anni con De Andrè
Erano tempi più umani. Forse è per quello che siamo così legati a quei maledetti anni Ottanta. Non è solo perché eravamo ragazzini freschi di lametta e avevamo birra a sufficienza nelle gambe per passare ore ed ore a giocare a pallone. Era proprio il mondo che era diverso. Era l’Italia che era diversa. Era la nostra città che era diversa. Eravamo tutti un po’ più caserecci, riuscivamo a difenderci per poi segnare in contropiede. I primi baci rubati, le interrogazioni scampate, i gol fatti in quei campi enormi che sembravano una infinita distesa di terra battuta. Da ragazzini eravamo dediti al catenaccio come l’Italia di Bearzot, quella che nell’82 è riuscita a vincere i mondiali in Spagna. Dentro di noi ci difendevamo dalla vita, ma sapevamo di avere dentro di noi un piccolo Paolo Rossi che prima o poi avrebbe messo la palla dentro la rete. Avevamo la speranza che ce l’avremmo fatta. E con Tardelli quella notte dell’82 abbiamo urlato a squarciagola perché era come se quella coppa del mondo l’avessimo vinta anche noi.Cagliari era bella, soprattutto la domenica mattina. Con il mio amico Falzoi ogni domenica era obbligata la tappa al Bastione dove c’era il mercatino dell’usato. Non so se esiste ancora, ma quello che fanno adesso in viale Trento davanti alla Regione non è la stessa cosa. E’ troppo caotico. Al Bastione invece c’erano anche gli spettacoli. Di solito c’erano due persone, un tipo alto e uno magro che vestiti da giullare cantavano le canzoni di De Andrè: il loro cavallo di battaglia era Re Carlo tornava dalla guerra lo accoglie la sua terra stringendolo d’allor….
De Andrè e Bennato: la nostra educazione musicale sono stati i cantautori. Storia di un impiegato, Indiano, Non al denaro, non all’amore né al cielo. La Buona Novella. Ma anche Burattino senza fili, Sono solo canzonette. E tanti altri, di altri cantautori. Tutti dischi che non erano soltanto canzoni. Erano poesia, impegno. Speranza. E poi gli accordi erano sempre quelli e con la chitarra riuscivi a suonare più o meno tutte le canzoni. Chitarra classica per De Andrè ed Eko 12 corde acustica con immancabile armonica a bocca per Bennato.
Oggi, esattamente quindici anni dopo la scomparsa di De Andrè, l’Italia è cambiata. E siamo molto cambiati anche noi. Abbiamo appurato sulla nostra pelle che non esistono poteri buoni, ma solo poteri che, se sono in grado di farlo, ti possono schiacciare. Oggi gli odori, i sapori e le sensazioni sono diverse. Anche le canzoni che ascoltano i nostri figli non hanno le stesse storie, gli stessi personaggi. Lo stesso impegno. Gli stessi messaggi di speranza. Anche il calcio è cambiato. Se lo sono comprato, spartito. Gli hanno strappato di dosso tutta la sua poesia. Oggi quel Paolo Rossi che portavamo nel cuore è acciaccato, ha le ginocchia distrutte dalle botte. Non riesce a buttarne in rete manco una. Anche la vittoria dell’Italia ad un mondiale ha un sapore più scialbo, non ha l’entusiasmo di quell’urlo di Tardelli.
Eppure le canzoni di Fabrizio De Andrè che ascoltavamo fino allo sfinimento nel mangiacassette o nel giradischi continuano a vivere dentro di noi. Le sue storie e i suoi personaggi sono poesia dentro di noi. Il suo viaggiare in direzione ostinata e contraria è identico a quello chi anche oggi si arrabatta per arrivare alla fine del mese ma continua imperterrito a combattere per difendere la sua dignità. Contro tutto e tutti.
I vecchi dischi in vinile di De Andrè che ogni tanto rimettiamo a gracchiare sul piatto, dimenticandoci per un attimo dell’acustica perfetta delle versioni digitali, ci ricordano che non c’è nulla di peggio del finto perbenismo e del giudicare gli altri senza conoscerli. Ci ricordano che la libertà non ha colore politico proprio perché è libertà. E ci ricordano, anche nei periodi più bui e difficili, che i diamanti e la ricchezza sono sterili, mentre i fiori e le cose belle nascono dal letame e dalla sofferenza. Ma soprattutto che in un momento come quello che stiamo passando nessuno è senza colpe e tutti, per uscirne dovremo rimboccarci le maniche e lavorare sodo.
Per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti: Fabrizio De Andrè.