Questa mimosa ha più di dieci giorni. Me l’ha data mio padre che da quando ho memoria mi regala sempre le prime mimose dell’anno che con il global warming arrivano spesso a fine gennaio. “Guarda, è la prima” e sorride forte non ho mai capito se per l’emozione che gli provoca pensare all’inverno che inizia ad andarci alle spalle o perché la sta dando proprio a me e mi sorride, senza mai guardarmi fisso negli occhi per più di qualche secondo ché queste son cose che a lui e a me imbarazzano assai. Questa mimosa ha più di dieci giorni e pensavo di averla persa, appuntata com’era al cappotto – perché la prima dell’anno va sul cappotto o tra i capelli per dire “Inverno devi arretrare ché qui abbiamo da risvegliarci e da profumare l’aria con la nostra energia e i fiori sulle orecchie”. Persa pensavo e invece c’è chi, con la premura di sempre, l’ha recuperata per me per dirmi “guarda, è la mimosa che avevi 10 giorni fa al cappotto”. E allora poiché come si diceva tempo fa, da queste parti si crede molto nel simbolismo delle cose, dentro quella mimosa che nonostante la neve e il gelo e la sbadataggine è ancora lì, gialla e viva in un bicchiere, ci abbiamo visto un mondo. Un mondo di buone speranze e frivolezze che si legano al bisogno di buttarsi alle spalle l’inverno e di guardare ai mesi in cui potremo concentrarci solo sull’energia da mettere in circolo e non sulla pelle da coprire per combattere il freddo. Perché la prima mimosa dell’anno è il confine tra la rincorsa e il salto (e tutto quello di simbolico o meno che uno ci vuole vedere in mezzo).
Questo è uno dei posti della mia infanzia/adolescenza, delle domeniche mattina appuntamento alle 11 per comprare le gommose, dei pomeriggi per andare a nasconderci nei vicoli bianchi che sapevano essere tana e rifugio. Mi piace dire “qui è dove facevo, qui è dove andavo, qui è dove compravo” un po’ per riprendere le fila e tesserle di nuovo con chi non c’era e si perde e si trova bene nelle parole e negli itinerari della memoria, un po’ per assaporare il sollievo dei passi fatti rispetto all’eterna immobilità del posto in cui vivevo, dove i vecchi hanno sempre la stessa faccia da vecchi, dove la polvere sulle bottiglie nei caffè è diventata una patina spessa quanto il vetro.
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