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Un premier bon bon

Creato il 22 luglio 2013 da Albertocapece

1337213280_136594385_4-paletas-de-bombon-varios-personajes-Compra-VentaAnna Lombroso per il Simplicissimus

A volte mi succede di sospettare di certi individui troppo manierati, affettati e formali.

 Sarà perché il galateo definisce l’insieme di norme comportamentali convenzionali, custodite e trasmesse  mediante un  codice  che stabilisce le aspettative del comportamento sociale di ceti privilegiati, a scopo di riconoscimento e difesa dalla collera, perlopiù legittima, di poveri, marginali, diseredati.   

Sarà perché il ceto che di più ha contribuito alla fissazione di quelle regole è quello ecclesiastico, che arriva a farle coincidere con i suoi principi morali, a sancire appartenenza e ubbidienza e non solo della comunità dei fedeli. Il nome “galateo” deriva infatti da Galeazzo Florimonte,  vescovo della diocesi di Sessa Aurunca   che ispirò a monsignor Della Casa   quel celebre libro del “viver civile”, il Galateo overo de’ costumi, primo trattato specifico sull’argomento pubblicato nel 1558.  

E infatti quel pretino che ci ha abituato a maniere melliflue, nascondendo autoritarismo e prepotenza sotto i panni untuosi dell’ossequienza ai più forti, e la mano di ferro dell’arroganza in felpati guanti di velluto, degno nipote di altro più prelatizio notabile che si vantava della nomea di Richelieu de noantri, ha sfoderato una inattesa fermezza nel rivendicare – a proposito delle sue vergognose  performance di manutengolo dei kazaki e dei loro corrispondenti e servitori italiani –   la sua “buona educazione”.

“Rispetto alla conduzione del governo non vorrei che su di me si commettesse un errore di valutazione: che la mia buona educazione venisse scambiata per debolezza in un tempo in cui prevalgono urla e insulti”, ha detto il premier Enrico Letta chiudendo il suo intervento al Senato.

 

Ma allora è vero che l’etichetta consiste  soltanto in comportamenti di facciata al servizio della più squallida ipocrisia. Ma allora è vero che la buona educazione non è l’indicatore  dei processi augurabili di civilizzazione di una società, bensì un’arma nelle mani di caste separate e oppressive. Ma allora è vero che il bon ton è un congegno micidiale che perpetua emarginazione e umiliazione in ceti che vogliono affrancarsi da sfruttamento e fatica, anche attraverso l’uso diligente di parole forbite, posate d’argento, buone maniere che li sollevino da solchi bagnati di servo sudor.

Ma allora è vero che bisogna tornare alla collera, alle invettive, alla coprolalia, alle parolacce e agli insulti, che avevamo rimproverato ai neo barbari:  berlusconiani licenziosi, leghisti sgangherati, cinque stellati eccellenti, fascistacci  triviali.

No, non è vero, è il cattivo uso della buona educazione che è proprio come il cattivo uso della buona politica. È che l’etichetta dovrebbe segnare i comportamenti severi e congrui di èlite attente all’interesse generale, come un marchio di qualità sociale, che certifica osservanza delle regole e delle leggi, a scopo esemplare e dimostrativo. È che un premier dovrebbe reclamare rispetto se se lo conquistasse sul campo con la trasparenza, l’onestà, la lealtà, lo spirito di servizio. È che non basta saper sbucciare una mela con forchetta e coltello o non apostrofare di “culona” la Merkel per ottenere credibilità, esibire autorevolezza e mostrare indipendenza. È che la buona educazione dovrebbe manifestarsi con il rispetto per i cittadini, il loro lavoro, le loro speranze, i loro soldi guadagnati con la fatica.. e la fatica bisognerebbe conoscerla sulla propria pelle per comprendere che le regole dell’etichetta sono quelle della legge morale dentro di noi, della libertà e dell’uguaglianza per essere uomini tra gli uomini, né sopra, né sotto, ma a fianco.


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