di Cristiano Abbadessa
Gli eventi e i temi si addensano, fornendo continui spunti stimolanti. E, per prima cosa, è giusto partire da un paio di buone notizie che ci mettono, per così dire, agli onori della cronaca.
Cominciamo dalla soddisfazione per il primo premio toccato a un autore di Autodafé. Per chi non l’avesse già vista su fb, la notizia è che per la xxiii edizione del Premio delle Arti – Premio della Cultura il riconoscimento per la sezione narrativa è andato a Pervinca Paccini con i suoi Vuoti a perdere. Un premio che ci rende felici anche perché strameritato: un tangibile riconoscimento al valore di un’opera che qualche tempo fa, proprio per l’incomprensibile scarto tra l’evidente qualità letteraria e l’andamento modesto delle vendite, mi aveva indotto a chiedere ai lettori quale tipo di prevenuta antipatia nutrissero per le raccolte di racconti. Ed è sperabile che al riconoscimento critico segua quantomeno la curiosità dei lettori.
A breve giro, al premio è seguito l’articolo che Il Giornale ci ha dedicato nelle sue pagine culturali, anch’esso già abbondantemente rilanciato sul web. Al netto di alcuni svarioni, soprattutto relativi alla biografia del sottoscritto – che non si chiama Carmine (avevo sempre pensato che Emilio Fede sbagliasse apposta i nomi di alcuni personaggi per dileggio, e invece dev’essere un semplice difetto dei giornalisti del gruppo) e che in editoria ha fatto mille cose ma mai il traduttore –, una buona presentazione, persino con qualche paragone forse troppo ambizioso (che fa sempre piacere, peraltro), e che soprattutto coglie lo spirito di quella proposta fortemente innovativa che abbiamo lanciato proponendo l’abbonamento-sostegno. E, anche qui, è sperabile che l’intuizione del giornalista apra la strada a una riflessione da parte di chi ci segue.
Ma non tutti i segnali, in questo senso, sono positivi. E non mi riferisco alle crude cifre delle prenotazioni finora raccolte, ma alla sensazione che non sia stata fino in fondo percepita la portata della proposta, con le sue implicazioni di opportunità e di necessità.
Mi riallaccio, per provare a spiegare, al commento postato da Paolo Gandino, che offre notevoli motivi di riflessione. È evidente che non risponderò qui alle sue domande e obiezioni, anche perché si tratta di questioni in larga parte già trattate in questo blog; immagino che Gandino sia un nuovo frequentatore di queste pagine, forse indirizzato da una ricerca che gli ha evidenziato quel malizioso titolo “AAA Autori cercasi” che in realtà voleva solo essere la parodia di certe inserzioni e del loro linguaggio. Non ritornerò quindi sui temi già affrontati, per non tediare chi ci segue fedelmente, limitandomi semmai a sottolineare che da mesi cerchiamo di raccontare il mondo dell’editoria e alcune sue regole, specie quegli aspetti meno conosciuti che troppi, per interesse o per pigrizia, non hanno ritenuto opportuno portare all’attenzione pubblica. E che, quindi, non siamo qui a dettare le regole dell’editoria che vogliamo, ma a cercare di fornire una rappresentazione veritiera dell’editoria contemporanea, che non è quella di Proust o di Flaubert. In particolare, ci anima l’intento di raccontare la fatica e le speranze di un piccolo editore che in questo mondo cerca il proprio posto, come mi fa notare Giulio Mozzi con la sua precisazione (anche se credo che buona parte della differenza tra quanto detto da me e da Giulio nasca da un semplice equivoco relativo alla definizione di tutto quel che sta, per dimensione, tra Mondadori-Einaudi e Autodafé, con le relative scelte promozionali; perché credo che, dalle rispettive prospettive, l’uno definisca “piccolo” ciò che per l’altro è “medio o medio-grande”). Per capirci, dunque, mi guardo bene dal ritenere e sostenere che questo sistema editoriale sia “il migliore dei mondi possibili”, ma so per certo che è con questo che dobbiamo fare i conti; e che, per esempio, le presentazioni non sono, per il piccolo editore e i suoi autori, la ricerca del “successo”, ma un tassello indispensabile alla pura e semplice sopravvivenza.
A proposito di conti, il primo conto da fare, e qui ho la sensazione che spesso ci si dimentichi di questo, è quello banalmente economico. So che molti storcono la bocca e arricciano il naso, ma per quanto “culturale” una casa editrice resta anzitutto un’impresa; e, come ogni impresa, deve far qudrare i conti. Troppo spesso ho la sensazione che si chieda all’editore (che deve essere puro e non certo a pagamento) di accollarsi oneri e rischi a prescindere, di aprire le porte a quanti più autori possibile, di editare tutti i libri che lo meritano da un punto di vista strettamente qualitativo. Bello e nobile, ma il fatto è che produrre libri costa e che questi costi devono essere coperti da qualcuno; poiché non siamo ricchi mecenati (e spero nessuno rimpianga il mecenatismo), l’unico modo di coprire i costi, una volta messa in moto la macchina con i primi investimenti, è attraverso gli incassi, ovvero le vendite.
In linea teorica, gli incassi di un libro dovrebbero consentire perlomeno di ripagare chi ha lavorato a realizzare il prodotto fisico, dall’autore fino al magazziniere. Questo se i lettori vanno a comprare direttamente il libro presso il magazzino della casa editrice. Se invece, come accade, la vendita avviene attraverso una filiera, bisogna che i soldi incassati siano sufficienti ancha a ripagare i lavoratori di questa filiera, che può essere più o meno corta (e più è lunga, più copie vendute servono per coprire i costi crescenti). Al momento, tanto per esser chiari, tutto questo non avviene, per quanto ci riguarda: e da qui nasce la necessità di intervenire in maniera radicale.
Mi preme ricordare che il 15 novembre, ormai prossimo, non è un punto di partenza ma di arrivo. Nessuno pensi a quella data come a quella in cui partirà la campagna di abbonamento di Autodafé; pensatela invece come la data in cui scadono i termini per prenotare l’abbonamento ad Autodafé.
Perchè la campagna, poi, partirà in base alle prenotazioni raccolte. E se le prenotazioni non raggiungeranno un obiettivo minimo che ci siamo dati, allora rinunceremo a questa forma alternativa di vendita. E se dovremo rinunciare a questa forma alternativa di vendita, be’, credo che i nostri amici più attenti e avveduti abbiano intuito quali possono essere le conseguenze.