17 GIUGNO – Finalmente, dopo ventuno anni di attesa, Aung San Suu Kyi ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace assegnatole nel 1991. La leader dell’opposizione birmana, giunta a Oslo per l’occasione, ha pronunciato uno storico discorso di accettazione del prestigioso riconoscimento invitando la Comunità Internazionale a non dimenticare i tanti prigionieri politici ancora detenuti ingiustamente nelle carceri del Myanmar, l’antica Birmania. La folla presente per l’occasione le ha dedicato due lunghi applausi, alla presenza del re Araldo di Norvegia e della regina Sonia. Con grande emozione, la figlia del generale Aung San, assassinato quando lei aveva appena due anni, ha ammesso che il premio l’ha profondamente onorata e addirittura “riportata alla realtà” negli anni in cui era costretta agli arresti domiciliari, sorvegliata in ogni momento dalla giunta militare. “Questo premio Nobel ha aperto una porta nel mio cuore” –ha affermato- “(…) esso ha ampliato le mie preoccupazioni per la democrazia e i diritti umani al di là dei confini nazionali”.
67 anni il prossimo 19 giugno, la “signora di Rangoon” di umiliazioni dalla dittatura militare birmana ne ha subìte molte. Non solo l’impossibilità di ricevere il Nobel a tempo debito, ma anche la scelta indotta di rinunciare a seguire da vicino il marito morente e di partecipare ai suoi funerali. Pena l’esilio dal Paese natio.
“Le ostilità continuano nel Nord così come nelle zone occidentali” ha precisato ieri il premio Nobel, in riferimento al fatto che a occidente continuano gli scontri tra buddisti e musulmani, mentre a nord le violenze riguardano gli scontri armati con alcuni gruppi separatisti. “Ci sono ancora tanti detenuti in Birmania per motivi politici e abbiamo paura che il mondo se ne dimentichi, dopo che i più noti sono stati rilasciati”. “Un prigioniero per reati di opinione è un prigioniero di troppo” ha concluso.
Silvia Dal Maso