Racconto gennaio 2013, di Nino Fricano.
Bel pascolo di zoccole la discoteca. Bevi un po’, fai il figo, ancheggi come sai fare solo tu e ne adocchi una di quelle giuste. Poi nel ballo la frenesia cammina da sola, ti strusci un po’ e se lei sorride continui. Se lei non sorride ma non sembra infastidita continui lo stesso. Se lei sembra infastidita, ma ne vale la pena, insisti finchè lei non ti allontana platealmente, oppure finchè arrivano altri maschi con gli occhi assetati di giustizia. Tu allora cedi il passo e volgi lo sguardo verso altri lidi. Qualcun’altra ci sarà.
Porca puttana in discoteca si rimorchia come in nessun’altra parte. Il sesso è sbattuto in faccia appena entri. Le ragazzine di buona famiglia stringono il loro bicchierone di cocktail colorato e si dimenano nelle loro lucide minigonne da troie. Le vedi subito al primo sguardo che quelle ci stanno. Che quelle la figa te la danno, bella linda e depilata il pomeriggio stesso nel bagno di casa insieme all’amica che vuole darsi una sistematina al suo triangolino perfetto.
Eccone una che fa per te. È del genere drogata sfasciata. Ha i capelli lisciati di fresco, color dell’oro, il piercing al naso, le braccia tatuate e i grandi occhi chiari già fuori dal mondo. Ha la bocca aperta, la lingua che luccica ad ogni fascio di luce. Ancheggia come una dea.
I tunz tunz dei bassi ti sono ormai entrati in corpo, i tumulti ce li hai sotto la pelle, hai bevuto quanto basta. Non è sera per sballarsi, questa. È sera per scopare. Lei ti sorride quando le sfiori i fianchi con i tuoi, quando la guardi su e giù, quando vi avvicinate e tu le cingi i fianchi. Prima delicato, poi più forte, poi irrimediabilmente sicuro di te stesso. Lei sorride. Ci sta. Ti dà la mano, tu la trascini dietro con quella forza bruta che la denuda delle sue ultime inibizioni. È tua.
Le strappi i vestiti di dosso che neanche hai chiuso la porta della camera d’albergo che il portiere tiene libera apposta per te. Le cominci a mordere i seni chiari e sei già sopra di lei, mentre le sue gambe scalpitano di un’impotente resistenza.Lei si contorce nei suoi spasmi di piacere, tu ti impunti nel tuo sforzo liberatorio. Cominci a sudare e vedi le goccioline che scendono dalla tua fronte e le ricoprono il petto come una pioggia di lussuria. Lei cerca di baciarti ma demorde dopo aver avvertito il tuo alito di birra guasta. Finisce di godere e si rannicchia di lato, in posizione fetale, mentre tu la accarezzi tutta. Con la mano la attraversi per intero, dalle caviglie fino alle clavicole, passando per il morbido dei glutei e la curva tesa della schiena. “Neanche so come ti chiami, chi sei, dove siamo – sussurra lei – Non abbiamo parlato niente. Comunque io sono Lavinia, piacere”. E cosa importa, bella mia. È stato bello. Abbiamo goduto, abbiamo fatto tutto quello che dovevamo fare. Non c’è più niente da fare, tra di noi. Non c’è più niente da dire.
La discoteca è stata una gran trovata. La fascia costiera ora è tutto un brulicare di gente, specialmente in estate. Ogni sera una fighetta diversa, ormai ci vai solo per questo. E ci vaisolo, come un predatore dei più scaltri. Non ti sballi più, ormai. Almeno non in discoteca.
Una volta ti chiamavano l’iguana, perché ballavi tutta la notte con il collo orribilmente ingrossato da quelle pillolette che vendevi a 20 euro ciascuna. Prima le distribuivi ai clienti, mettevi da parte il denaro, e poi finalmente lasciavi perdere il commercio e cominciavi a divertirti. Eri più giovane, eri più coglione. Te ne calavi due – mica tante – poi buttavi giù un paio di cocktail e che cazzo, ti faceva sempre quell’effetto: ti si gonfiava il collo in una maniera schifosissima, le ghiandolette esplodevano fino alle dimensioni di palline da golf, e tu ballavi ballavi ballavi quattro cinque sei ore di seguito senza accorgertene. Un’iguana impazzita. Gli altri, più fatti di te, ti guardavano e ridevano, ridevano, ridevano. A loro non faceva quest’effetto. Loro si calavano lo stesso le loro pillolette e semplicemente sballavano, come doveva essere, e si agitavano incoscienti per ore e ore e ore. Sudavano e sudavano e scaricavano li dentro tutte le cazzo di tensioni del mondo di fuori. Ogni tanto qualcuno cadeva giù svenuto, battendo le ossa dei gomiti a terra, ma gli altri – almeno quelli che se ne accorgevano – erano pronti a prenderlo per le ascelle e metterlo a sedere da qualche parte. Eravate tutti amici, tutti fratelli, anche se poi fuori neanche vi riconoscevate. E tu, lo spacciatore che si sballava come tutti gli altri, eri il più amico di tutti, il più fratello di tutti. Le tue pilloline facevano furore. Nessuno si era mai sentito veramente male, con la tua roba. Tutte cazzate quello che dicevano nei telegiornali, tu solo roba buona. Eri un grande. Sei un grande.
“Sei un grande, amore”. Vorresti risponderle di non chiamarti amore, cazzo, ma non ne hai la forza. “Lo sai che per me sei il più grande di tutti? – continua lei – Il più importante, il più importante di tutti quelli che ci sono sopra questo mondo? Non m’importa di nessuno, di nessun altro, possono morire tutti. Non me ne frega di niente e di nessuno. Mi frega solo di te”. Ti senti come stretto a morte dentro una fredda gelatina dolorosa. Lavinia ti bacia piano e ti parla. Ti bacia e ti parla. Lei è immensamente bella, è innamorata, è completamente perduta. È felice perché te ne stai accovacciato su di lei, disteso sulla panchina, completamente indifeso, con la testa affondata nelle sue cosce. Hai la testa gonfia, pronta pronta per scoppiare. Ti fanno male anche braccia e le gambe, e lo stomaco a volte ti si stringe in una morsa lancinante che vorresti urlare. Ma non ce la fai. Sei senza forze. Sei niente. Niente. Totalmente finito.“Tesoro, non ti preoccupare, ieri hai esagerato, ma non è niente di grave. Però dovresti starci più attento. Lo sballo è bello, ma stacci attento. Non puoi mischiare tutte quelle cose. Vedi ora come ti sei ridotto”.Pilloline, sniffate, cannoni, vodka e sambuca. Il nostro grande spacciatore di quartiere ieri ha portato a casa il suo gruzzoletto quotidiano e poi è uscito con gli amici a far bagordi. Pilloline, sniffate, cannoni, vodka e sambuca. Il nostro grande spacciatore stanotte ha proprio esagerato. Eh si. Ai ai ai.Hai la faccia sulla sua carne accogliente. A pochi centimetri c’è il suo sesso, non hai nemmeno la forza di immaginarlo prendere fuoco. Sei niente. Niente.Alzi il braccio e ti ricade sul legno della panchina, lei sorride. Bestemmi tra te e te, stringi i denti e lo rialzi. Le accarezzi il viso con le tue mani piccole e dure. Lei sorride. Ti prende la mano e te la bacia, le sue labbra sono dolcissime e umide. Ti bacia ancora e ancora, passerebbe giornate intere a baciarti le mani. Ti farebbe da serva, se solo lo volessi. Ti si accuccerebbe ai piedi come una cagnetta devota, ti leccherebbe dove tu vuoi, ti farebbe qualunque cosa tu desideri. È tua, e tutta tua. E la conosci da nemmeno un mese. Da quella sera in discoteca in cui lei ti è rimasta appiccicata e non ha più smesso di rincorrerti e cercarti, perché – che cazzo – pensavi non abitasse qui vicino, pensavi che fosse venuta in discoteca soltanto per passarci una serata e poi tornarsene al suo paese distante chissàquanto. Insomma, pensavi che non l’avresti rivista più, come tutte le altre. E invece no. Abita a pochi isolati da casa tua, ti conosce da sempre, e tu non l’avevi mai vista, e ora ti tormenta, ti viene appresso come una disperata. È innamorata persa di te. O almeno così dice. È una bella figa ma ti fa paura la sua disperazione. Ti fa paura come lei dice “innamorata”. Ti fa paura come ogni tanto le trema la voce. Da un mese scappi da lei, cerchi di evitarla, ma oggi è diverso. Oggi non ci voleva altro che stare così, a fondo con lei.
“Su, su, non c’è niente, non c’è niente”. Con le sue lunghe braccia tatuate ti accarezza la fronte. Cazzo devi starci più attento, ha ragione lei. Il fegato ce l’hai in pappa, il cervello ce l’avrai tutto bucherellato. La tua prima canna te la sei fatta a dieci anni, sei tornato a casa con gli occhi rossi e il sorriso sulle labbra, ma tua madre stava piangendo perché tuo padre se l’erano venuto di nuovo a pigliare. Avevano rotto la porta con un calcio e lo avevano tirato giù dal letto armati fino ai denti.Era una schifosissima alba cinica e fredda. Loro avevano gli occhi lucidi della mattinata, i più giovani erano ubriachi di adrenalina, i più vecchi sembravano porcini esattori delle tasse, mentre tuo padre sgranava il suo sguardo gonfio e diceva: “Ho capito, ho capito, e che cazzo, potevate venire un po’ più tardi. Mica scappavo”.Ma era già scappato una volta, quand’era ragazzo, e si era rintanato per mesi e mesi dentro uno sgabuzzino, a casa della zia vecchia e rincoglionita. Poi l’avevano preso lo stesso, gli avevano sbattuto la faccia sul tavolo mentre lo ammanettavano, e la zia urlava, e i poliziotti sorridevano, e tuo padre quando uscì di galera era per la prima volta in vita sua un maledettissimo pregiudicato.Marchiato a fuoco, senza più nessun scampo.Tua madre piangeva perché era uscito da galera da nemmeno un anno, e non ce la faceva a sfamare te, che eri l’unico figlio, e nessuno la voleva più come lavaculi, spazzapavimenti, sturacessi, operaiauntadigrasso.Niente. Nessuno la voleva per nessun motivo.E così tuo padre aveva ricominciato a tagliare polverine, insacchettare pasticche, sezionare panetti di fumo. Gli affari andavano, come no, ma tuo padre era un coglione. Aveva la testa leggera. Si era fatto beccare di nuovo e quella mattina gli avevano di nuovo sbattuto la faccia sul tavolo, ammanettandolo.“Vittò, guardami” ti disse allora quella poveretta di tua madre. “Guardami”. Ti aveva preso la faccia e ti aveva affogato nel suo sguardo. Ti eri messo a tremare tutto, le gambe ti erano cedute e lei ti teneva letteralmente per la faccia.“Trovati un lavoro onesto e lascia perdere tutti questi soldi che vengono da questo schifo. Lasciali perdere. I soldi sono belli, ma il carcere è un inferno. Per te e per chi ti vuole bene. Vittò, senti a me. Se ti arrischi a diventare come tuo padre. Se ti arrischi a sporcarti con quella merda, tu non sei più figlio mio. Vittò, ti sto avvisando”.Ti eri messo a piangere come un piscialetto e te l’eri abbracciata forte, quella tua madre sventurata. No mammina, no mammina, io non finirò mai dentro. No mammina, io onesto, io dritto e serio, io soldi puliti, anche se dovrò farmi un mazzo così. Mammina fidati di me, fidati di me. E i tuoi occhi si arrossarono pure di pianto. Ma il tuo sorrisino ebete ti era rimasto in faccia. E diceva già tutto.
I ragazzini delle medie erano tutti amici tuoi. Ti passavano accanto e ti lanciavano il cenno stabilito. Tu li fermavi e te li prendevi a braccetto.Quanto? Dieci, venti euro? Questo pomeriggio ti porto tutto. E buon divertimento.In teoria stavi frequentando per la quarta volta la prima media, e tutti ti conoscevano. Venivi a scuola solo i primi giorni, sbadigliavi qualche mattinata e poi non ti facevi più vedere. La maestrina, al momento dell’appello, non diceva neanche più il tuo nome, per non sentirsi ripetere “assente” da tutta la classe che sghignazzava.Non andavi a scuola, i carabinieri ti venivano a suonare a casa ma non c’era mai nessuno. Dicevano che un giorno all’altro sarebbe scattata la denuncia, ma non succedeva mai.Tu eri felice. Passavi la giornata scorazzando sui tuoi cinquantini rubati e prendendo le ordinazioni. Quanto? Dieci? Venti? Cinquanta euro? Ah, stasera festazza?Lavoravi insieme ad un grassone con la schiena piena piena di peli. La peluria nerissima gli sbuffava da sotto la camicia, attorcigliandosi intorno il suo collanone d’oro.“Vedi Vittò? – ti diceva, infilandosi una mano verso il petto – Tutto questo perché io sono più uomo degli altri. Le femmine ci vanno pazze. E poi non ti dico cosa c’ho quassotto – e si infilava la mano da un’altra parte – È questo quello che conta”.Il grassone gestiva lo spaccio di tutto il paese, aveva i contatti con i mafiosi locali che si prendevano la loro piccola percentuale, ogni settimana si recava verso la città a rifornirsi dai mafiosi più grossi che smerciavano – ovviamente – all’ingrosso.Era l’ultima ruota del carro, lui, vendeva le dosi direttamente i clienti.Non aveva molto potere, ma stava da Dio.L’ultima ruota del carro, almeno nel paesello tuo, veniva temuta lo stesso perché finiva di schiacciare i piedi già massacrati da tutte le altre ruote.Tu eri il suo picciotto. Vendevi la roba ai ragazzini, a quelli più o meno della tua età. Era il tuo settore, e tu eri dannatamente bravo. Dodici e tredici anni e già chiedevano la polverina. Le canne se le facevano da prima che gli crescesse il primo pelo.Tu scrivevi tutto sul tuo block notes, ti mettevi sulla moto e correvi a darti da fare. Il grassone ti dava una buona parte di quello che guadagnava. Era un buonuomo. Ti entravano botte di cinquecento, seicento euro alla settimana.
Finite le scuole elementari, tua madre ti mandò a lavorare in un minimarket del paese. Ti ci rovinasti la vita per un mese, mattina e pomeriggio, tutti i giorni tranne la domenica.Quello ti diede quell’unica grossa schifosissima banconota da cinquanta euro. Era la tua paga. Lo mandasti a fanculo e via a bussare alla porta del grassone amico di tuo padre nuovamente in carcere. Lui ti prese a cuore, e tu lo aiutasti negli affari. Restando figlio di tua madre.
Prima i ragazzini delle medie, poi le discoteche, poi il grassone venne arrestato e tu diosacome ti salvasti dalle manette. Nessuno ti venne a cercare, te l’eri scampata, e ne approfittasti.Radunasti altri tre spacciatori della zona, quelli con cui ti andavi a sballare le sere libere, e ti creasti la tua società. Riprendesti i contatti del grassone, riacchiappando le fila dell’organizzazione. E tutto in paese ritornò come prima.Solo che l’ultima ruota del carro ora eri tu.Era un onore, un traguardo.Ora sei tu il capetto dello sballo, lo spacciatore principe del paese.Ci stai da Dio. Tua madre dimenticò presto le sue maledizioni e cominciò a sorridere quando le portavi le mazzette di denaro frusciante.In pochissimo tempo neanche ti imbarazzavi più a schiacciare davanti a lei talco e tachipirine scadute per allungare la coca. E a volte ti aiutava pure a tagliuzzare i panetti di fumo per farne tocchetti da dieci o da venti euro. Non c’era neanche bisogno di pesarli, tua madre aveva un occhio precisissimo. Si era allenata coi formaggi, da giovane, lavorando in una salumeria. Adesso rideva più spesso, e le rughe sulla fronte sembravano meno profonde. Poteva pagare l’affitto, andare a fare la spesa senza angosce, aveva perfino aperto un conto corrente, in banca.Grazie a Dio, a volte sussurrava tra sé e sé, Grazie Dio che ci sei tu, e ripensava a quando stava in città e la miseria le gorgogliava nel ventre, quando era costretta ad occupare le casepopolari, afferrando un bambino della cugina o dell’amica e forzando la porta insieme al marito coglione che ogni volta, quando entrava nella casa che odorava di rinchiuso, si buttava a terra nel salone principale e si levava le scarpe lerce, aggiungendo tanfo su tanfo.“Se siete con un bambino piccolo, la polizia non vi può fare niente” le dicevano le donne più esperte, e lei poveretta si era proprio specializzata nel prendere in prestito poppanti altrui, solo per esibirli come un trofeo affacciata sul balcone, urlando contro gli abbaglianti delle pattuglie.Avevano occupato decine e decine di casepopolari, lei e il maritino coglione, durante gli anni ruggenti del loro beneamato matrimonio, prima con i neonati in prestito e poi con te in braccio, che urlavi e piangevi e ti impiastricciavi le guance d moccio.Ma la permanenza durava sempre poche settimane e poi, ogni volta, arrivavano gli agenti e vi buttavano fuori.Non avete avuto neanche la fortuna di appropriarvi di una qualche casapopolare che chissàperchè nessuno veniva poi a reclamare, come era successo a molti vostri conoscenti.Macchè, ogni volta tornavate ad affondare i piedi nella melma dei prefabbricati in periferia, insieme agli zingari, agli immigrati, ai figli di nessuno.Le lampadine attaccate alla rete Enel, le pareti soffocate dal polistirolo, il soffitto che cadeva pezzi pezzi, i vermi che galleggiavano nelle pozze d’umido, l’acqua che usciva dai buchi delle tubature rancide.Quelle grottesche quattro mura malferme puzzavano sempre di piedi e di vomito, di merda e di muffa. Era uno schifo. Una volta ti salvarono dalla culla dove brulicavi nerissimo e frenetico. Eri ricoperto di scarafaggi.
Eppure sembravi esser cresciuto bene. Grazieadio sembravi meno sventato di tuo padre, meno coglione. Ti avrebbero sempre potuto arrestare, certo. Eri ancora giovane, e i rischi erano ancora tanti, tantissimi.Ma insomma, tua madre non ci pensava molto.Aspettava che il marito uscisse di galera e “poi si vede” diceva sempre con un sorriso, aprendo le labbra sugli incisivi carbonizzati dalla carie.Intanto tu andavi diventando uno conosciuto, in paese.I padri di famiglia distoglievano lo sguardo per evitare rogne. I ragazzini timidi abbassavano gli occhi terrorizzati. Gli altri cercavano di catturare la tua benevolenza, arruffianandoti come si fa con il bossettino locale. Sedici anni e già eri temuto.
Una volta fermasti un secchioncello che girava col motorino centoventicinque che il paparino gli aveva appena comprato come regalo per la promozione al liceo classico. Lui tremava di paura.“Portami a Palermo”.“Non ho benzina, e poi mio padre non vuole. Il motore è nuovo, ci sono ancora le strozzature”.“Portami a Palermo, altrimenti ti rompo tutti i denti”.Lui ti accompagnò a Palermo, dove non dovevi andare a fare niente di particolare.“E adesso dammi venti euro”.“Ma non ce li ho”.“Non ce li hai?”.“Non ce li ho!”.“Allora dammi quello che hai”.Le guance del secchioncello cominciarono a rigarsi di lacrime mentre frugava dentro il portafoglio. Dodici euro e trenta centesimi.Lui se ne andò con un nodo alla gola. Tu restati tutto il pomeriggio a bazzicare per Palermo, facendo niente, tornando poi con l’autobus. Non ti piaceva fare il bullo.
Bulli erano i tuoi compari, quelli che lavoravano con te.Minchia divertimento, Vittò.Rubavano una macchina, di quelle vecchie scassate che si aprivano come una scatoletta, poi correvano per l’autostrada e andavano ad ubriacarsi a città, dove guardavano, spingevano, insultavano fino a quando non trovavano qualcuno con abbastanza coglioni da incazzarsi e farsi sotto.E partiva la rissa. Un tripudio di sopraccigli insanguinati e denti che volavano e craniate folli e mazzate allo stomaco.Lo facevano così, per divertirsi. E non le prendevano quasi mai.Tranne quella volta quando si infilarono in quel vicolo e furono presi a calci sulle costole da quel gruppetto di negri ubriachi e strafatti.Botte da orbi ai Candelai, titolò l’indomani il Giornale di Sicilia.Due dei tuoi compari finirono addirittura all’ospedale.Minchia divertimento, Vittò.Poi a volte si trastullavano a rapinare i coglioncelli cacasotto, a rubacchiare motorini ai figli di papà, a pestare qualcuno a caso soltanto perché gli stava vagamente sulle palle.Ma sempre fuori paese, perché in paese c’erano gli affari, e lì meglio non avere rogne.Glielo raccomandavi sempre e intanto loro ti raccontavano tutto, tutte tutte le loro avventure.Sniffati, fumati e bevuti, finivate stravaccati sui gradini a ridere come i mongoloidi.Minchia divertimento, Vittò.
Ma tu, quando sapevi come sarebbe andata a finire la serata, che avevano intenzione di menar le mani, preferivi non andare con loro. No. Tu eri diverso. Eri meno animale.Perché loro si divertivano con le risse, se ne andavano a Palermo. Tu invece te ne stavi al paese tuo e ti divertivi a fottere.Si si. Ti divertivi con le ragazzine quattordicenni che si facevano trovare alle tre in punto in campagna, con il sole che filtrava tra gli alberi e i conigli che sbucavano da un cespuglio e l’altro.E ci passavi i pomeriggi beati. Fissavi gli appuntamenti per il pomeriggio perché la sera i paparini preoccupati non le lasciavano uscire.Del resto le teen agers di provincia si lasciavano circuire facilmente all’uscita della scuola. All’inizio se la tiravano un po’ ma quasi sempre cedevano alle tue lusinghe e alla tua fermezza. Il tuo aspetto selvatico le attizzava. Eri l’avventura pazza che tutte un giorno o l’altro dovevano concedersi.Le riunioni erotiche si tenevano sempre in zone di campagna, in casette in disuso o in posti che conoscevi solo tu.La prima volta era stato con Erica e Martina, e tu eri venuto insieme a un tuo compare, di quelli meno violenti.Loro si sfilarono le mutandine e voi cominciaste a sbattere i vostri sessi ancora non tanto turgidi sulle loro fenditure già umide.Erano due ragazzine carine carine, di buona famiglia, avevano buoni voti a scuola e giravano per il paese con i loro Scarabeo colorati. Erica aveva gli occhiali e le lentiggini e la sua peluria color oro contrastava con il fitto ciuffo nero di Martina.Quando i vostri sessi induriti si drizzarono contro di loro, il tuo compare – visibilmente più esperto – prese Martina per i fianchi e si appiattì sopra di lei con tutto il corpo. Lo stesso facesti tu, ancora novellino, e sussultasti violentemente quando entrasti dentro il suo paradiso rossastro e lucido.Lei stringeva con le mani la coperta maculata che aveva messo a terra, mentre il tetto del casolare abbandonato sbiancò di gemiti e piacere.Ascoltavi le sue urla, ti addentravi nelle sue delizie bagnate ed andavi su e giù su afferrandole le carni e lasciandole lunghi graffi sulla schiena.Ti sentisti potente e libero.Alla fine, distesa supina vicino alla sua compagna completamente nuda, lei ti ringraziò con un bacio sulla tua fronte sudata.Non si era nemmeno tolta la camicetta.
Le femmine per te erano come le canne. Te le facevi, una dopo l’altra, e sapevi che non ti avrebbero fatto male.Ma quella Lavinia era una canna che non si spegneva, che potevi buttarla a terra ancora accesa ma nonsicapivacome ti tornava sempre tra le dita.Lei ci sapeva fare, con le sue arti da femmina. Si faceva trovare sempre sul tuo tragitto – Dio solo sapeva come conosceva così bene i tuoi movimenti – ed era sempre così dolce, così disponibile, così accogliente, che tu finivi sempre tra le sue braccia, totalmente indifeso e totalmente bambino.Riusciva ad aprirsi così completamente, ad inondarti con il calore avviluppante dei suoi orgasmi multipli, che quando la lasciavi a casa e tornavi nel tuo letto, ecco che, cazzo, ti rodevi il fegato perchè pensavi – cosa che non avevi mai fatto – La Voglio Ancora, La Voglio Ancora. Voglio Ancora un Pezzo Di Lei.E la cosa non ti piaceva, e che cazzo, e lei era così immensa, diventava sempre più immensa, e la cosa ti spaventava.Un giorno decidesti di scrollartela di dosso.Lei si fece trovare per caso sulla tua strada, come sempre, ti sorrise con le sue solite labbra larghe, i suoi soliti occhi senza veli, e tu la mandasti a fanculo, la trattasti male.Cosa vuoi da me? Vattene. Vattene.Lei sorrise.Disse, Sei Proprio Un Bambino.Sorrise.Sei Proprio Un Bambino Adorabile.E se ne andò, “tanto ho un sacco di cose da fare”. Ciao tesoro.E tu tornasti a casa, nel tuo letto, e ti rodesti il fegato come non mai, fucilato dai tuoi mille La Voglio Ancora, La Voglio Ancora, Voglio Ancora un Pezzo Di Lei.
Era un turbine, un uragano, una droga pesante. Ti avviluppasti in lei, tra le sue braccia, mordesti la sua carne, soffocasti nel groviglio dei suoi capelli, ancora infinite volte.Lei ti cospargeva il corpo col suo umore caldo, col suo balsamo odoroso. Ti affogava nel fluido dei suoi orgasmi multipli, aperta a te fin nei suoi antri sconfinati. Il suo olio ti riscaldava ma era così caldo che a volte temevi di infiammarti definitivamente, di bruciarti e finire in secca cenere.Volevi scrollartela di dosso, volevi tornare a fare il vitellone perfettamente riuscito, ma niente, le sue caverne erano troppo profonde e tu niente, non riuscivi a mettere la testa fuori, verso la luce. Avevi perso la luce, e te ne stavi invischiato nelle sue umidità che respiravano aliti ammalianti, canti di sirene.Oh Lavinia Io Ti Amo, gli sussuri un giorno mentre lei urla di piacere, mentre sobbalza delle sue scosse telluriche che ogni volta ti stupisci perchè pare non debbano finire mai.Oh Lavinia Io Ti Amo gli sussurri, ed è la prima volta che dici una cosa del genere a qualcuno, e lo dici con lo stesso tono che può avere il condannato che accetta di mettere la testa dentro la gogna, in attesa che cali giù la lama della ghigliottina.
Rulli una canna in due secondi scarsi e lei ti appoggia la sua guancia nella tua, calda e corposa, e ti sussurra all’orecchio tante di quelle parole che il fumo non ti fà nessun effetto, il cervello ti si annacqua in un modo diverso, doloroso, il tuo sguardo si disfa sotto i colpi di quelle parole.Io lo so, ti dice Lavinia, Io so tutto, me l’hanno raccontato per filo e per segno, me l’hanno raccontato i suoi amici, io so tutto, io so tutto per filo e per segno, me l’hanno raccontato i suoi amici, non devi aver paura, non devi temermi, io lo so, caro Vittorio, tu non hai colpa, io lo so perchè tu hai così paura di me, ma mio fratello ormai… io non ci posso fare niente, e tu non ci puoi fare niente. Io ti amo, Vittorio. Tu mi ami, Vittorio. E mio fratello, ormai….annegato, liquefatto, macerato, incagliato in qualche scoglio a metri e metri sotto il mare, mordicchiato dai pesci, azzannato dalle murene, fatto a brani, diventato cibo, mangime, bricioline decomposte, minestrone al sale marino.
Ti ritrai. Orrore. Riesci a fare quello che hai sempre voluto fare. Ti senti un grande. Proprio un grande. Sei un grande Vittò. La butti fuori dal tuo letto e le urli parole di disprezzo e di orrore, le gridi Puttana, Schifosa Maledetta, Puttana Puttana Puttana, senza nessun motivo. Ti senti un grande. La butti fuori e sbatti la porta con forza. Lei piange. Riapri la porta. La fai infilare in macchina e la accompagi a casa. Lei piange, tu nemmeno una parola. Nemmeno un respiro mentre guidi. Secco e duro, con lo sguardo diritto verso di te.Lei piange e dice Non è Colpa Tua. Ma tu vedi quel plop plop plop e quei cerchi concentrici e suo fratello che ormai…annegato, liquefatto, macerato, incagliato in qualche scoglio a metri e metri sotto il mare, mordicchiato dai pesci, azzannato dalle murene, fatto a brani, diventato cibo, mangime, bricioline decomposte, minestrone al sale marino.
Tu rullavi una canna in due secondi scarsi e insegnavi ai ragazzini delle medie a farlo con la stessa maestria. Una sera sulla spiaggia, d’estate, quei ragazzini delle medie senza maglietta, con i soli calzoni, a piedi scalzi. Tutti vibranti di vita, col super santos arancione, e gli insegnavi a rullare le canne con la tua stessa maestria. Fumavano, sospiravano le loro prime boccate con gli occhi felici, una cosa proibita, che meraviglia. Avevano undici, dodici anni. Sospiravano le loro boccate con gli occhi felici, strabuzzavano gli occhi quando sospiravano troppo, poi cominciavano a ridere, a spezzare la schiena ai loro discorsi, a ridere per le parole insensate, a ridere perchè Dio Quanto Mi Sento Tutto Fuso, e di nuovo il pallone, il Super Santos Arancione, e quel bambinetto piccolo, più piccolo degli altri, che aveva dodici anni ma era bambino più degli altri in quegli occhi grandi, in quei riccioli lunghi, color dell’oro, in quella boccuccia corrucciata, e il pallone finisce a mare, e il mare ci sono le onde, un po’ di onde, niente di che, anzi quasi niente, qualche ondicella lieve lieve, ma il fatto è che lui si butta a prendere la palla, e la palla si allontana, e galleggia lì dove non si tocca, e quei riccioli lunghi, color dell’oro – gli stessi riccioli lunghi, color dell’oro, che Lavinia nasconde con lisciature innaturali – quei riccioli lunghi, color dell’oro, che scompaiono, con quel plop plop appena accennato, e quello sbuffare dell’acqua, e quelle poche grosse bolle d’ossigeno strozzato, il suo ultimo ossigeno, e quei cerchi concentrici e quel silenzio lissotto, plop plop plop in fondo al mare.Nessuno lo ritroverà, nessun corpo tornerà a galla.Morto. Il fratellino di Lavinia. Morto.Annegato, liquefatto, macerato, incagliato in qualche scoglio a metri e metri sotto il mare, mordicchiato dai pesci, azzannato dalle murene, fatto a brani, diventato cibo, mangime, bricioline decomposte, minestrone al sale marino.