Un ragazzo d’oro

Creato il 30 settembre 2014 da Ussy77 @xunpugnodifilm

Nervi tesi per lo scrittore Scamarcio

Un ragazzo d’oro è un film che lascia perplessi. Difatti l’ultimo prodotto di Pupi Avati imbocca una spirale autodistruttiva incomprensibile, che comincia a frantumare tutto ciò che di buono era stato costruito in una prima parte compassata, ridondante, ma centrata sotto il punto di vista tematico.

Davide Bias è uno scrittore di racconti, conta i suoi passi ed è dipendente dalle medicine. Figlio dello sceneggiatore Achille Bias, Davide non ha mai vissuto un rapporto idilliaco con il padre e non ne rimpiange la perdita quando scopre che è morto in un incidente d’auto. Tuttavia una scoperta getta nello sconforto Davide: probabilmente il padre si è suicidato. Questa rivelazione porterà Davide a cercare di capire chi fosse realmente il genitore.

Non è il miglior film di Pupi Avati, questo è indubbio. Tuttavia qualcosa di buono rimane nella messinscena della vicenda del giovane scrittore, che ha vissuto un rapporto turbolento con il padre,  assaporandone ombra e fama (?). Comincia tutto con quella prima parte quasi sussurrata, nella quale Scamarcio è diffidente, silenziosamente rabbioso e ammaliato dall’operato del padre defunto. La sua lenta e ripetitiva ricerca di un manoscritto (che avrebbe dovuto riabilitare il padre, autore di pellicole di serie Z, di fronte all’opinione pubblica) diviene un percorso catartico, un fiacco recupero degli affetti, una caccia alle emozioni del genitore, sopite e chiuse a doppia mandata in una stanza della casa familiare. Ed è questa rappresentazione idealizzata che ad Avati riesce meglio, chiudendo la serratura e cominciando a far fluire ricordi. Peccato che la preparazione alla completa immedesimazione del figlio nei panni del padre lasci spazio a un’escalation, narrativa e visiva, folle, che nulla ha a che vedere con il ricongiungimento con la figura paterna, persa e mai realmente compresa. È qui che Un ragazzo d’oro naufraga incredibilmente e, affidandosi pienamente alla caratterizzazione di Scamarcio, non trova la perfetta armonia.

L’immedesimazione (fisica) da parte di Davide è parte della pazzia di un ragazzo, che nel momento in cui trova finalmente il padre non ha intenzione di perderlo nuovamente. E allora ecco che l’acqua di colonia da due soldi, che tanto ha odiato, diviene la sua accompagnatrice, la pettinatura e i baffi segni particolari riconoscibili. Ma la sequenza in cui Davide comincia ad avere reazioni violente e incomprensibili per la strada come si spiega? È ciò a far perdere definitivamente il contatto con la narrazione (minimale, mai urlata o sguaiata, ma curata e ossessiva), una scelta che spiazza perché non inserita in un percorso fino a quel momento individuabile e fedele. È qui che Avati prende la decisione di cambiare direzione al suo film, di dimenticare cosa aveva pedissequamente osservato per un’ora, modificandolo in una pazzia incontrollata, che trova l’unica spiegazione nella mancata assunzione della cura farmacologica da parte di Davide.

E, cambiando il verso, si modifica anche l’obiettivo della pellicola, che lascia da parte l’ingombrante figura del padre (assente e conflittuale), sostituendola con una folle autodistruzione dalle tonalità dark e dall’accompagnamento (di Gualazzi) sottotono. Un ragazzo d’oro pecca di presunzione e mancanza di senno; siamo sicuri che a Venezia non ci fosse di meglio?

Uscita al cinema: 18 settembre 2014

Voto: **


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