Chiedere a Chaplin di rinunciare alla pantomima, anche quando non costituisce il perno narrativo del film, è impensabile. Un re a New York, infatti, non nasconde il più grande talento del tuttologo britannico del cinema, che però sa bene che nel 1957 non può più fare affidamento solo su di esso, a meno di non voler confezionare un prodotto nostalgico, dalle dubbie probabilità di successo. Il regista, allora, punta su un’amalgama di elementi che rispecchiano profondamente la sua vita artistica, in primo luogo. La sequenza iniziale, infatti, ci riporta subito alla mente che Chaplin è l’autore di Tempi Moderni, una critica verso la società industrializzata in cui il vortice del progresso tecnico trascina come pecore, su per le scale della metropolitana, individui ipnotizzati da quella sinfonia di una città frenetica. E siamo solo agli inizi del ‘900. Dal momento in cui entra in scena il suo personaggio, poi, ad accompagnarlo c’è sempre la sua consueta ironia e autoironia, o meglio la sua ombra: abbiamo detto che non si esprime soprattutto attraverso lo slapstick, usato per dare più colore alle scene o per autocitarsi con discrezione: emerge invece dai dialoghi, carichi di una satira amara ma troppo smorzata, che rispecchia profondamente la sua vita personale, questa volta. L’attore e regista interpreta infatti il re di un ipotetico stato europeo, Estrovia, che giunge esiliato in America sperando che quel paese così all’avanguardia possa aiutarlo nel suo sogno utopico: usare l’energia nucleare solo a scopi civili. Speranza vana, visto che la febbre da armata rossa da un lato, e l’ossessione dei media per la sua immagine dall’altro, gli renderanno la vita impossibile. Il suo nome, Shahdov, non ha bisogno di precisazioni, e si può interpretare per quello che Chaplin è diventato per gli Stati Uniti dopo il suo esilio, in seguito al delirio anticomunista del maccartismo. Un re a New York, infatti, è rimasto censurato negli USA per un paio di decenni, e capiamo bene in perché: la fresh air che il re crede di respirare, tra grattacieli che nascondono il cielo stesso e pure il mare, in quello che dovrebbe essere l’avamposto per l’Europa, è subito appesantita dalla patina luccicante e al contempo ossessiva del conformismo americano. I soli momenti in cui il re è davvero felice sono quelli in cui può ritornare all’infanzia: spiare dal buco della serratura una donna nella vasca da bagno e corteggiarla, facendo sfoggio della sua sfacciataggine e della sua comicità slapstick, appunto. E quel re è Charlie Chaplin davvero, che si butta contento in quella vasca con tutti i vestiti, e che qualche momento dopo strappa un assegno col quale si sarebbe venduto a quel Paese cui tanto ha dato ma che non merita più la sua attenzione. Un fanciullo maturo, proprio come la sua controparte che è fanciulla anche anagraficamente: il vero figlio del regista, giovanissimo comunista e mosca bianca in un sistema scolastico che forgia i giovani del domani, la cui presenza genera le scene più divertenti di tutto il film. Se gran parte di quei giovani, qualche decennio dopo, ha permesso che George W. Bush diventasse presidente della nazione più influente al mondo, all’epoca, notiamo con quale bontà la satira di Chaplin si abbatta su di loro.
Come ogni buon film di un grande autore, infine, Un re a New York non manca di riflettere sul potere affabulatorio stesso di quest’arte: lo fa, come detto, nell’ossessione per l’immagine che investe il re nelle sue uscite pubbliche e lo fa in una delle scene conclusive, piccola esilarante rivincita di un artista che, come altri grandi artisti (Hitchcock, per esempio) ha immeritatamente ricevuto l’Oscar alla carriera. Se per “Oscar alla carriera” intendiamo un contentino che l’academy consegna a qualcuno che, accorgendosi di aver sottovalutato per svariati decenni, premia per tentare di riabilitarsi. Un’umile ammissione di colpevolezza o l’ennesimo tentativo di dire “l’ho premiato quindi è importante”, e non viceversa? Propendo per la seconda interpretazione.
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