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Un ritratto in rosso

Da Bruno Corino @CorinoBruno

Boldini Signora in rosso
Trovo sempre più difficile stendere il colore sulla tela. Ogni mia pennellata sfuma sempre nello stesso tono. Si tingono di rosso. Finché dipingevo albe o tramonti, la cosa poteva sembrarmi normale; ma quando ho comincio a dipingere di rosso alberi e prati la cosa non mi è sembrata più normale. Avevo dato una un’ultima pennellata al carretto seguito dal cagnolino, e anche lì era emerso quel tono rosso. Perciò avevo smesso per qualche giorno di dipingere. Tutto questo è successo da quando ha fatto il suo ingresso nel mio studio la contessa Adk; era accompagnata dal marito, un bell’uomo, non c’è che dire; mi ha commissionato il ritratto della moglie. Con quei suoi modi gentili e cortesi mi ha illustrato sin nei minimi dettagli come eseguire il ritratto. Mentre lui parlava, io a volte guardavo nello specchio di fronte: notavo le sue spalle, la sua folta chioma, il movimento preciso delle sue mani, e vedevo la faccia di un uomo brutto, deformata nello specchio. La bella dama perlustrava con in mano il suo ombrellino i miei quadri; aveva un’aria annoiata. Capivo che non era interessata alla mia pittura. Mentre il marito continuava a parlare ed io a buttar giù degli schizzi, notai che la contessa si fermò di colpo davanti al ritratto della mia domestica. Non potevo cogliere le espressioni della sua faccia perché la vedevo di spalle, ma mi sorpresi che lei sostasse a lungo davanti a quel ritratto. Carmen, la mia domestica, non è affatto una bella donna, ha un naso prominente (ch’io ho tentato in tutti i modi di addolcire), un viso lentigginoso e due occhietti volpini. Lei, infatti, ogni volta che vede quel suo ritratto mi fa sempre la stessa domanda: ma sono davvero tanto brutta? Ed io devo essere sempre lì a consolarla dicendole che in realtà ho dipinto l’anima non il corpo. In realtà, io ho dipinto solo il corpo, anche perché vedo solo il corpo, non l’anima. Ed io dipingo solo ciò che vedo. L’ho ritratta a figura intera, seduta su una sedia mentre sbuccia le patate. Ho messo soprattutto in risalto il movimento delle gambe più che quello delle braccia o delle mani. Anche se erano coperte con un panno grossolano, dalle forti tinte verdi, sono riuscito ugualmente a mettere in risalto la loro rotondità; ho fatto in modo che la gamba sinistra s’allungasse tutta in avanti; a quel punto, Carmen, data la postura innaturale, ha dovuto far indietreggiare la destra sotto la sedia per stare più comoda, mettendo in primo piano il ginocchio su cui si concentrava la tensione nervosa del peso del corpo; a quel punto la coscia destra risaltava con maggior evidenza, e lasciava che le pieghe del vestito scendessero come un’onda fino all’inguine. Erano proprio quelle increspature a dare un certo rilievo alla sua figura; man mano che procedevo nel dipinto m’ero accorto che tutta la mia attenzione si concentrava soprattutto là in mezzo: ed era così che avevo reso una donna scialba e priva di ogni attrattiva in una figura desiderabile. E credo che a questa conclusione fosse arrivata la contessa mentre rimaneva ferma davanti al dipinto. Quando si girò dalla mia parte scorsi uno scintillìo nei suoi occhi chiari. Mentre il conte continuavo a parlare, e la contessa proseguiva il suo giro, pensai che nel suo caso, se la commissione si fosse conclusa, avrei dovuto fare esattamente il contrario: il problema per me sarebbe stato quello di coprire le sue molteplici attrattive. A questo scopo, comunque, anche il marito contribuiva fortemente. Mi chiedeva di fare un ritratto di una donna tutta dedita alla famiglia e all’amore maritale; mi raccomando, mi ripeteva con quel tratto signorile e con accento leggermente francese, niente “romanticherie”, niente aspetto trasognato o malinconico, rien sdolcinature, sobrietà, sobrietà, e soprattutto fermezza. E così, mi spiegava, come avrebbe posata: un vestito bluastro, lungo fino ai piedi, a coprire le scarpe, mani congiunte e leggermente sporgenti fuori dal tronco, seduta su una poltrona dal colore violaceo. Poi mi raccomandava soprattutto di fare attenzione allo sguardo: diretto sull’anello coniugale, come se lo contemplasse con amore e affetto. Mi venne spontaneo ammirare il grosso anello che il conte aveva al dito. Per un attimo avevo sperato che si portasse via qualche tela, ma non si degnò di dare neanche una mezza occhiata al mio lavoro. E mi venne persino il sospetto che mi volesse affidare quella commissione più per la mia bruttezza che per la mia bravura. È difficile provare gelosia per un uomo che ha un naso tutto spostato a sinistra, le spalle curve, la bocca asimmetrica, due folte sopracciglia, capelli increspati, e un andatura curva. Solo le mie mani sono belle; infatti, nei pochi autoritratti che ho eseguito ho messo al centro soltanto le mani. Tutto il resto l’ho dipinto sfumato, in ombra. Guardavo le mani bianche della contessa, e mi chiedevo che effetto facessero quelle mani quando accarezzavano la pelle di un uomo. Mi piaceva pensare a come vibrasse a loro contatto. Chissà in quale paradiso artificiale sarebbero riuscito a trasportarmi quelle due ali d’argento! Il mio recettore di sensazioni sarebbe stato capace di assorbire ed assimilare qualsiasi tremito, qualsiasi piccola scossa suscitata da quelle mani d’angelo! Ma era solo un pensiero, perché sapevo che quelle mani bianche avrebbero provato soltanto disgusto soltanto all’idea di toccare la mia pelle aggrinzita. Il problema che mi poneva era la luce: mi domandavo da quale parte l’avrei fatta provenire. Soprattutto avrei voluto illuminare il viso e le mani; ma stavo pensando più a una luce interiore, prodotta dallo stesso corpo; a una luce arancione; il conte preferiva un volto marmoreo, freddo, impassibile; catturare la bellezza e tenerla prigioniera in una gabbia dorata! Più o meno era quanto il marito mi chiedeva. L’immagine che avevo visto nel dipinto tratteggiato dal conte era l’immagine di una donna “morta”, spenta ad ogni desiderio. Invece, io più guardavo la sua figura slanciata, e più i miei sensi s’accendevano di desiderio. Con la contessa non avrei dovuto usare nessun artificio per farla diventare una donna desiderabile; mi sarebbe bastato dipingerla nella sua vera essenza. Quando l’ammiro mentre posa per me su quel divano violaceo, e noto sempre quell’aria annoiata, distaccata, distante da me, mi accorgo ancora di più di quanto desiderio rappreso ci sia nelle sue fattezze. Lei, quando la ritraggo, neanche mi vede. Mi appare assorta nei suoi pensieri, non mi concede mai un minimo accenno di sorriso, mai una semplice parola affettuosa, uno sguardo furtivo, un gesto allusivo. Tra me e il cavalletto lei non vede nessuna differenza. Ogni tanto il mio sguardo cade sulle sue mani intrecciate; la destra penzolante, quasi nervosa; le dita che si muovono, che leggermente s’agitano, e quella increspatura del vestito bluastro, vellutato, che si crea ogniqualvolta sposta lievemente il polso sulla coscia. Questo piccolo, insignificante particolare è tutto ciò che mi rimane dentro alla fine di ogni seduta. Ho cominciato a metterlo sulla tela. Ne è venuto fuori un quadro astratto. Sembrano onde originate dal movimento del colore; sottili lingue di fuoco, soprapposte, l’una sull’altra, che divorano la tela; ho soprattutto riprodotto le vibrazioni, che sembrano riprendere il loro moto a ogni minimo spostamento di luce. Era la vita sotterranea quella che a me interessava far emergere; tutto quel flusso di sangue che scorre silenziosa sotto la sua pelle marmorea, che sottilmente si dirige verso il cervello e che poi si traduce in gesti, espressioni del viso e del corpo, movimenti impercettibili delle labbra, inarcatura degli occhi, in quel arricciarsi del naso, e arriva finalmente al movimento lieve delle dita. Ho steso dapprima il colore con la spatola, non l’avevo mai fatto prima, e poi l’ho lavorato con il pollice; avevo la sensazione di toccare quel velluto, la sua carne; spalmavo il colore con estrema delicatezza; con l’unghia tracciavo dei sottili solchi, cercavo di individuare la Grande safena e di seguirla nelle sue diramazioni. Ma i miei studi di anatomia, fatti all’Accademia, non mi aiutavano molto in questa ricerca; mi aiutava di più seguire l’impulso del mio desiderio. Avvertivo una forte energia scorrere nel palmo della mano, che si trasmetteva sulla tela imbrattata di rosso, e che sapeva dar forma alla mia passione silenziosa. Ero cosciente ch’io non avevo altro modo per possedere quella bellezza femminile; soltanto attraverso la mia arte potevo sfiorare le carni delicate di quella donna. Il ritratto che stavo facendo non mi piaceva affatto; credo che non piacesse neanche alla contessa; aveva sempre qualche nota di disappunto da avanzare; non che non le somigliasse, ma capivo che non si poteva riconoscere in quella figura ch’io a poco a poco tratteggiavo. Quelle vesti con le quali si presentava ad ogni seduta sembravano spegnere ogni desiderio in chi la guardava; i panni della sacerdotessa domestica toglieva alla sua femminilità ogni sapore; e sapeva che quel ritratto non era mio, ma del marito, e forse intuiva che nella mia mente io stavo dipingendo un altro ritratto. Così mi spiego la richiesta che il conte mi ha fatto di comprare il ritratto di Carmen da mettere su una parete delle cucine; credo che a lui non interessasse affatto avere dentro la sua bella casa il ritratto di una donna che sbuccia le patate; non l’hai mai guardato; e ancora più sorpreso sono rimasto quando il loro miglior amico, l’avvocato, mi ha chiesto di comprare quel quadro astratto; in un primo tempo non glielo volevo vendere, ma poi lui ha insistito così tanto che ho dovuto cedere. E così, durante una delle tante sedute, la contessa mi ha fatto tanti complimenti per quel dipinto che aveva visto in casa dell’avvocato. Si vedeva quanta passione ero riuscivo a trasportare in quel dipinto. Così mi disse; e mi sorrise persino. L’ha messo nella sua camera da letto, m’informò la contessa, ed è piacevole rimanere lì ad ammirarlo. Fui preso immediatamente da un moto di gelosia. Per un attimo me li sono visti davanti mentre scopavano, sotto il mio dipinto, come se il mio desiderio avesse avuto la funzione di mediare e accentuare i loro desideri. Non so come ho fatto a trattenere ciò che sentivo ribollire nelle mie vene. Ero completamente coperto dalla tela, ma potevo lo stesso immaginare come la contessa stesse ridendo dentro di sé della mia gelosia. E fu nel momento in cui sporsi la testa per catturare un particolare della piega del suo vestito che feci in tempo a vedere per un attimo un suo sguardo lascivo, accompagnato da un umettamento delle labbra con la lingua. Come la volta scorsa, quell’immagine finì con l’ossessionarmi la mente. Non riuscivo a togliermela neanche per un istante. Vedevo le sue labbra rosse su ogni oggetto che toccavo. E finché non la proiettassi sulla tela non cessava di tormentarmi. Ho dipinto la lava che fuoriesce dalla bocca di un vulcano. Ho usato soltanto due colori: il giallo e il rosso. La gelosia e la passione. Poi mi sono tagliato le vene e ho fatto scorrere del sangue, che ho mescolato sulla tavolozza insieme al rosso e al giallo. Credo che quando l’opera sarà finita io non ci sarò più; dipingerò fino a quando le ultime forze non mi abbandoneranno. Sarà il mio ultimo dipinto. Il mio ultimo regalo alla contessa e al suo amante. In calce troveranno la mia firma: Efesto.


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