Su Argo è uscita questa bella recensione de “La misura del danno” firmata da Simone Colombo (che ringrazio). Qui c’è l’articolo originale.
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Una vita perfetta, o quasi. Una storia da manuale, o quasi. Alessandro è all’apice della sua carriera di attore, ha conquistato il cuore di giovani adolescenti con ruoli da belloccio e il favore della critica con film impegnati. Ha una moglie e una figlia adolescente, è asceso dalla borgata alla conquista della borghesia romana di sinistra. Eppure la sua vita presenta delle crepe, come una bella architettura costruita troppo in fretta con tanto entusiasmo: troviamo il protagonista nella casa al mare in compagnia di Beatrice, quindicenne migliore amica della figlia, sua ammiratrice, consenziente e anzi promotrice dell’idea del “rapimento per un week end”. La ragazza con la sua fresca sensualità sembra proporsi ad Alessandro come una bella promessa di riscatto, una catartica tentazione in grado di liberarlo dalla frustrazione accumulata in una vita. Consapevole di star compiendo il più grosso errore della sua vita, Alessandro va consapevolmente incontro alla sua rovina, che inevitabilmente si abbatterà su di lui nella seconda parte del romanzo.
La misura del danno è un romanzo umano: più che la vicenda, che è solida e non cede, l’autore mette in scena un flusso di flashback, che vorticano attorno al protagonista in apparente casualità ricostruendone storia e personalità, sviscerandone il carattere e portando il lettore all’empatia, senza mai esprimersi moralmente o eticamente, lasciando le riflessioni ad Alessandro. È un romanzo umano perché non ci rifila la solita macchietta, il solito manuale dell’ascesa e caduta del personaggio famoso, ma ci fa riflettere su quanto sia umana questa dinamica, quanto sia dietro l’angolo. L’espediente dell’usare un vip per protagonista sembra una mera cartina di tornasole per misurare il danno sotto una lente di ingrandimento.
La misura del danno è un romanzo politico. Un po’ perché infarcito, forse un po’ troppo a volte, di riferimenti ideologici e popolato di personaggi appartenenti alla sinistra borghese. Ma soprattutto è politico nel senso di afferente alla polis, è una sorta di romanzo sociale, dove il protagonista stesso da la misura dell’uomo contemporaneo, che sia vip o uomo medio, ricco o povero, e ne è al contempo circondato e succube, vittima e carnefice tanto del proprio destino quanto di quello di un’intera comunità allucinata, ipocrita ma non troppo biasimabile, pronta ad adorarlo come modello di rettitudine quanto a sbranarlo come il peggiore degli uomini, quindi digerirlo e mangiarselo sotto altra forma mediatica.
Colpisce della scrittura di Andrea Pomella la capacità di tenuta dell’intreccio di eventi e ricordi inscatolati gli uni negli altri, la prontezza dell’aneddoto giusto al momento giusto che non è mai banale e va sempre a segno, vera forza di un romanzo che poteva facilmente scadere in una storia, come si è scritto provocatoriamente in apertura, quasi da manuale. Invece Andrea Pomella sa farcire un canovaccio da cliché con una profondità di analisi, sia dei personaggi che della società, fuori dal comune, avvalendosi di una capacità narrativa e di un lessico variegati, incalzanti e senza sbavature.
SIMONE COLOMBO