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Presentato all’ultimo Festival di Cannes, ero convinta che Marion Cotillard si sarebbe assolutamente presa la palma d’oro come miglior attrice. Interpretare una donna che deve affrontare la perdita di entrambe le gambe, la depressione e la rinascita in questa nuova situazione credevo sarebbe stata premiata dalla giuria. Al suo posto vinsero invece le protagoniste di Oltre le colline, film nelle sale da ieri assolutamente da vedere.
Ma perché quella statuetta non se l’è meritata Marion? Non credo ci sia nulla da dire nella sua recitazione in questo film. La sua Stéphanie riesce a comunicare tutta la disperazione e tutta la solitudine dopo il tragico fatto che la coinvolge. Il suo lavoro, la sua passione, addestrare orche, le porta via non solo le gambe, ma anche la dignità, la femminilità, la libertà. Rinascere non sarà così facile, anzi, solo un uomo come Alì, incurante delle apparenze e apparentemente privo di sentimenti profondi, può essere l’ancora di salvezza che arriva dal nulla. La sensibilità senza fini che li porta ad incontrarsi, un’amicizia, se così si può inizialmente definire, in cui non c’è posto per la pietà o per altri sentimentalismi sarà il motore che porterà Stéphanie alla rinascita, a riprendersi in mano la sua vita.
Il fatto è che non è lei la protagonista di questo film, Jacques Audiard decide infatti che la figura centrale sia quella scomoda e incongruente di Alì. Padre assente e spesso incurante, fratello inospitale e amante senza sentimenti. Diviso nella vita tra incontri saltuari con donne e incontri di lotta clandestina, sembra essere indifferente a tutto e a tutti, anche alla disabilità di Stephanie. Propria questa sua noncuranza colpirà lei, e la farà pian piano innamorare di lui. Ma come detto la loro non sarà una storia d’amore canonica, né tanto meno salvifica come in altre pellicole spesso succede. Lui insegnerà a lei ad amare ancora, a lasciarsi andare, ma l’amore, quello vero, stenterà ad affiorare. Forse solo un’altra tragedia, una che possa davvero toccarlo, riuscirà a svegliare Alì.
E propria questa tragedia, che arriva in modo pesante e fa sussultare il pubblico (possibile tutta questa sfortuna?) porterà a quel finale sperato e rimandato a lungo, ma non è un contentino questo, è un degno happy end di un film costruito come un percorso di rinascita e di redenzione. I molti episodi tragici del film sono spiegabili per la natura frammentaria da cui è tratto, Ruggine e ossa di Craig Davidson è infatti una raccolta di racconti da cui il regista Jacques Audiard ha tratto episodi qui e là per identificare meglio i suoi personaggi. E se la Cotillard è sempre splendida, anche quando la cinepresa si sofferma, sempre volutamente troppo, sulla sua menomazione, Matthias Schoenaerts non è da meno. Svogliato, animale, quasi primitivo nei suoi modi è assolutamente credibile. Insieme danno vita a due figure difficilmente dimenticabili, che compongono così un film che vuole scuotere, che non vuole far commuovere o far riflettere sulla disabilità ma che grazie alla libertà, alla naturalezza con cui affronta questi argomenti riesce a farlo ugualmente e in modo decisamente più efficace.
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