La nostra guida, non ricordo il nome, aveva i capelli scuri, legati in una coda. Gli occhiali erano piccoli e aveva un sorriso malinconico, sembrava la maestra buona delle elementari. Sull'autobus continuava a parlare di Oswiecim, perché quello era il nome del piccolo paese. Era possibile riappropriarsi di quel posto, anche solo chiamandolo col suo vero nome? Ci accompagnò fino ad un certo punto, perché non riusciva ad entrare. Ricordo di averla vista con le mani sugli occhi, mentre teneva gli occhiali sulla fronte. Le labbra erano serrate e il suo sguardo aveva preso a guardare in alto, verso il cielo. Nessuno si avvicinò per consolarla. Qualcuno ne sarebbe stato capace? Alcuni si chiesero per chi piangesse. Il suono di quella domanda mi accompagnò durante la giornata, facendomi provare un certo imbarazzo. Davanti alle celle, davanti ai forni, nelle camere a gas, lungo i chilometri di filo spinato arrugginito, dietro alle vetrine stracolme di scarpe, di occhiali, di denti, di capelli. Avrei voluto chiedere scusa, anche se non ero stato io a fare quella domanda.
Il sasso è nascosto in un cassetto. L'ho tirato fuori ed ho ripensato ad un passaggio di un libro che amo. La memoria, se potesse trasformarsi in sassi, potrebbe tenerci ancorati al terreno, senza paura di lasciarci scappare e senza vedere la nostra umanità smentirsi ogni giorno, come succede da sempre. Se i ricordi fossero duri e resistenti come questo piccolo frammento di pianeta, non ci sarebbe bisogno di un giorno canonico per tornare a guardare i nostri passi. Purtroppo non è così.
Alessio MacFlynn
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