Sono tempi questi, potremmo azzardarci a dire, alquanto tormentati. E per alcuni paesi, più di altri. E per alcuni di noi
più che per altri. Almeno per un continente - ahimé il nostro - la situazione è quanto meno instabile, senza chiare prospettive, per tali intendendo quei presunti accadimenti futuri che si possono additare come possibili, non
necessariamente felici né infelici, non se ne riescono ad intravedere, se non vestiti di quei luoghi comuni che sono sempre e quasi unicamente, succubi dell’umore del momento.
Non li ho chiamati sviluppi, laddove a questo termine gli si attribuisce un significato evolutivo che, almeno nel mio
instancabile ottimismo (che in molti non mi attribuiscono in verità ma che esiste ed è ben saldo), assume sempre un significato istintivamente positivo e pertanto, nella fattispecie, preferisco
evitarlo. Sono momenti (storici s’intende) durante i quali chi ha di che occuparsi di aspetti specialistici, di materie ed argomenti raffinati, si
rinchiude nella propria nicchia cercando in essa di trovare le ragioni universali ed i perché cosmici sia dell’evoluzione che del ben più palpabile futuro prossimo venturo, mentre, chi invece
vive di quella generica umanità che dicesi anche normalità, finisce per perdersi in una babele di considerazioni che, ad esclusioni di pochi ed isolati casi, altro non è che un elencarsi continuo
di misfatti e delitti. L’elemento comune a questi ultimi due è che la responsabilità degli stessi ovviamente non ci appartiene, ma solo perché i
difetti, come la gobba, di solito sono di dietro e noi, per anatomica conformazione e non per altre
ragioni, gli occhi li abbiamo soltanto davanti per cui, altro (quanto meno ad un primo sguardo) non ci è dato constatare, se non le altrui manchevolezze o mostruosità, il cui appellativo varia
con il crescere o diminuire dell’enfasi con la quale raccontiamo.
Anche di recente, roba di questi giorni per intendersi, su innumerevoli blog, su lampeggianti avvisi di facebook, su martellanti stringhe twittate è stato un rimbalzarsi continuo di
denunce, scoop, confidenze, rivelazioni, la cui indubbia tendenza è quella, peraltro oramai consolidata, di porre alla generale attenzione l’altrui misfatto. E qui si scatenano i professionisti
di scienze, soprattutto sociali, che trovano di che alimentare tutte le più intarsiate teorie circa le risposte dell’umano percepire, di fronte alla privazione. Ebbene sì, la privazione, perché
di tale si tratta, Sia essa intesa come mancanza di libertà, di benessere, di possibilità di scelta, di cibo, di acqua, di denaro, di amore, di amicizia, di diritto, di libero arbitrio
addirittura. Oramai per ciascuna di queste mancanze si è aperta più di una fanpage, sveltendo il lavoro della casistica, arricchendo i particolari sullo
status quo, accumulando fatti, registrazioni, immagini e filmati, ma, nel contempo, alimentando più o meno consapevolmente, una sorta di autoprivazione. Dimentichi (noi) che il tempo scorre senza
pietas alcuna, mentre indugiamo nell’esercizio dell’ars calumniae, perdiamo di vista la necessità di verificare come siamo arrivati a tanto poiché, se è vero che non vi é futuro là dove non esiste una storia, se pur è sacrosanto capire perché oggi il malcontento impera, così come la
deresponsabilizzazione, è altrettanto necessario estendere la ricerca dei “rei” un poco più indietro nel tempo. Un esempio su tutti: la Grecia.
Sufficiente è osservarne la storia, anche quella recente, senza bisogno di scomodare padri della civiltà o della democrazia. Dal 1821, anno dell’indipendenza il suo bilancio come Stato sovrano
non è mai stato in attivo. Mai. Se si esclude il 1944, anno in cui a bilancio furono messi gli espropri del tedesco invasore per cui si riuscì, ironia della sorte, a trovare quadratura di conti e
..attivo! Per il resto, non v’è anno in cui il bilancio dello stato non si sia concluso con quella riga rossa che sancisce un conclamato default.
Perché dunque meravigliarsi oggi? Circa due secoli di interessi nazionali hanno fatto sì che poi le falle venissero tappate, non per amor di Grecia siatene certi, ma perché quella sua particolare
posizione geografica e politica, la rende importante a ben altri equilibri dove essa, non svolge che il ruolo di pedina, alla faccia di quello smisurato orgoglio nazionale che ancora oggi impera
(cercando - a mio avviso senza più motivo alcuno se non faziosamente intellettuale - di far valere antiche vestigia). Per
storica analogia, almeno per quanto riguarda il dopoguerra ultimo scorso, fors’anche l’Italia ha in parte almeno usufruito degli stessi “benefici”, benefici che ne hanno in realtà avallato i
costumi, il modo di pensare e di procedere, laddove, all’assunzione della responsabilità si è prediletto l’aiuto internazionale, sotto quelle mille forme che hanno impasticciato il dopoguerra
tutto fino al termine della guerra fredda. In altre parole chi era forte, abituato a lottare per la propria autonomia ed il proprio prestigio (in
modi anche discutibili certo) è divenuto ancora più forte; chi debole in fondo era, o di fresca nomina quanto ad indipendenza, ben poche chances ha avuto per farsi le ossa, irretito da facili aiuti, da promesse e da lusinghe che gli hanno dato l’impressione di poter “sedere al tavolo dei grandi e di poter restare
alzato la sera fino a tardi”. Esser grandi è un esercizio che necessita di secoli di apprendimento, di duro addestramento, di studio e … disciplina. Ma a noi in fondo, non interessava né
interessa tutt’ora. La nostra indole è vivace, creativa, intraprendente ma, al contempo, scarsamente perseverante, poco incline all’ordine, fortemente interessata ad impicciarsi la dove non è
proprio necessario. In poche parole un animo buono il nostro, di paese se vogliamo, dove ogni stramberia passa per curiosa genialità, dove ogni tanto volano gli asini e qualche volta, invece
piovono, con dolore per chi li riceve sulla testa. Capaci di produrre cervelli e manufatti ineguagliabili così come di perdersi nel più classico dei bicchieri d’acqua. Ci saremmo rimasti per
dodici anni senza un aumento di stipendio? No. C’è chi l’ha fatto. Avrebbe mai lo stato nostro sopportato un anno e più di serrata in taluni settori dell’industria? No. C’è chi l’ha fatto. Ma non
siamo i soli certo a vivere d’affanno. Altri come noi (io che sono avido, per dire, qui da Atene me la vivo due volte la crisi cosiddetta, da cittadino e da straniero), hanno un poco di problemi.
La Spagna ad esempio che seppur storicamente fra le grandi da quando scacciò l’ultimo califfo, ha sempre avuto un atteggiamento nei confronti delle
cose, molto sanguigno ed impulsivo, preferendo arrivare sempre sull’orlo dell’eccesso, prima di ravvedersi. Così farà stavolta. Già è cambiato il governo, forse non funzionerà ma, a noi ad
esempio, non è riuscito fare nemmen quello. Chissà come mai quando i problemi son tosti … mai nessuno che si faccia avanti con impegno e determinazione! E poi ancora l’Irlanda, il Portogallo,
paesi entrambi vissuti all’ombra, nel bene e nel male delle grandi vicine, abituati a soffrire di povertà, pellacce dure che torneranno a più quieti periodi. E prima fra tutte l’Islanda di cui
abbiamo già avuto modo di parlare. Oggi ci troviamo a seguire soluzioni che non ci appartengono, non sono propedeutiche nemmeno a salvare quella ricchezza cui pacatamente e cattedraticamente fece
riferimento il prof. Monti nella sua intervista a Fazio. Perché cui prodest salvare questa ricchezza (e non “la” ricchezza badate!) ch’è fasulla,
virtuale, figlia di quella strana legge per la quale Pascal, sì Blaise, proprio lui, ancora si rivolta nella tomba, in base alla quale debito e prodotto di una nazione sono comunicanti ma, in più
è lecito che l’acqua vada in salita, ovvero che il debito sia ben maggiore di quanto lo stesso paese produce perché ciò che conta è ……la fiducia (quella che oramai socialmente non si concede più
a nessuno, quella cosa che è quasi sparita dal novero dei rapporti umani è divenuto metro di valutazione economica). Sì la fiducia dei mercati finanziari. Se chi investe ha fiducia, compra i
titoli di una nazione anche se ha un debito astronomico, perché crede che continuerà a produrre “ricchezza” e quindi potrà rimborsarlo. Di fatto questo debito é oramai costituito dal fatto che per emettere i
titoli, qualcuno di rigorosamente privato (BCE), ti ha prestato soldi dicendoti che a fronte della vendita di cambiali dello stato, puoi mettere in circolazione carta moneta. Anche se oramai il
tuo oro, cioè la tua ricchezza è da tempo esaurita. Su questo prestito lo strozzino si prende un bel tre per cento per la transazione, oltre ad un interesse variabile in base alla data di
scadenza dei titoli ed alla … fiducia che i mercati ti danno, fiducia basata sulla cabala sociale, ovvero su niente, su quel meccanismo che è previsto in quella unica sala da gioco al mondo:
l’azzardo, oggi mascherato da epiteti come analisi finanziaria, statistica e proiezione, ecc. ecc., ma che in realtà è fragile come un papiro, suscettibile di umori, dicerie, premonizioni, umane
passioni. Ma, soprattutto è un debito che viene contratto non per rilanciare una economia ma solo per far galleggiare in qualche modo lo stato delle cose in attesa ….. (tra l’altro sarebbe
curioso sapere in attesa di cosa visto che chi guadagna sul debito dovrebbe essere lo stesso che dà segnali positivi di ripresa, quindi di decrescita del debito stesso e conseguentemente dei suoi
guadagni). In pratica abbiamo raggiunto la quintessenza dell’idiozia, siamo riusciti a creare lo strozzino anche con i soldi inesistenti. E pensare che annullando il debito di ciascun paese nei
confronti dell’altro, come ha dimostrato più di un autorevole studio (come qui ad esempio: eudebtwriteoff.com), si otterrebbe il risultato come dalle infografiche (l’ho imparato da poco!) qui
sotto (clicca e ingrandisci)…. occorre però farlo a sorpresa di sabato, a banche chiuse, con effetto dal venerdi precedente, Argentina docet!
Ma abbiamo accettato il gioco perché nel frattempo ci siamo “turati” bocca, naso, orecchie e coscienza e ci siamo comprati quanto possibile, anche noi rigorosamente a rate, dalla casa al televisore, dall’automobile all’aspirapolvere in questa sabbah
di generale ed incontrollato debito che tutto avvolge, economie familiari come quelle statali. Il problema unico è che i singoli sono all’estremità di questa
diabolica catena e pertanto non hanno alcuno su cui riversare il proprio debito e quando si arriva al limite, ecco che, necessariamente, entra in gioco la privazione. Psicologica e reale. Eccoci
dunque pronti alla sacra indignazione, senza domandarsi se quanto fino ad oggi ci era giunto (o ci siam preso) fosse stato falso, vero, corretto, frutto di menzogna, arbitrario. In fondo non era
importante saperlo. Arrivava e contestualmente diventava diritto acquisito, sacrosanto ed inalienabile così che oggi che qualche rinuncia v’è da
fare, si grida e ci si affanna invocando quella moralità e quell’integrità ad occasionem che
vorrebbe quanto acquisito come intoccabile patrimonio genetico, senza capire che nel momento in cui lo si é accettato abbiamo firmato la cambiale. E siccome il tempo è galantuomo anche se non
sembra, la scadenza arriva.
Ebbene vi direte … ma l’uomo di Piltdown cosa c’entra? In realtà niente. Di fatto è stato un legame istintivo quello che si è creato tra la sua storia e la nostra, di oggi, entrambe
basate sulla colossale menzogna, entrambe tese a mantenere e rafforzare un certo status quo. Al tempo l’uomo di Piltdown doveva servire a
decretare anche in campo archeologico e paleontologico la supremazia dell’uomo inglese, colui che era riuscito a creare l’impero più vasto del mondo; oggi la grande farsa della carta stampata,
virtuale ed inesistente denaro, che si cerca di difendere per conservare il privilegio del salotto buono dal quale altrimenti verremmo scacciati lasciandoci sprofondare nel regno della economia
reale e del senso di responsabilità. So però che ce la faremo anche oggi, confido sul fatto che un bell’esercito di giovani svegli, agguerriti e giustamente (gli unici a mio avviso) autorizzati
ad essere indignati, riescano a trasformare l’energia che gli è propria in proposizioni e nuovi sistemi. Noi non possiamo e credo non sia soltanto un fattore di età ma anche di inquinamento.
Abbiamo seguito la sorte del pesce. Ricordo che quando ero piccolo se ne consigliava l’assunzione almeno quattro o cinque volte la settimana per tutte le sostanze attive che conteneva, fino
all’apoteosi pubblicitaria degli “omega3”. Non si diceva tutti i giorni, per una sorta di senso morale, perché quello fresco in particolare era molto caro e fuori dalla portata dei più, ma certo
sarebbe stato da farsi. In questi tempi, apprendo - ovviamente dalla rete - che occorre limitare l’assunzione di pesce, anche mediterraneo, ad un massimo di due volte a settimana e,
preferibilmente, di piccola taglia. Colpa del mercurio e di altri inquinanti che rendono un bel dentice grande quanto il piatto del forno, praticamente una scoria radioattiva. Così come per il
pesce dunque, salutare in giovane età, confido che queste generazioni nuove, pur soffrendo di certi disagi, sappiano dare un colpo d’ala, forti dei principi per i quali ancora sono in grado di
infuocarsi, per i torti cui assistono, di fronte ai quali assurgono sovente a paladini in difesa ancor prima di sottoporre l’azione a quella ponderata riflessione che spesso diventa poi calcolo e
nient’altro, forti di quella energia pura che spero sia più intensa della voglia di possesso. L’uomo di Piltdown, anch’esso di giovane età, di fatto smascherò l’eccesso di bramosia personale e
nazionale. Quella che sembrava la scoperta di tutti i tempi, ovvero un teschio di uomo primitivo ritrovato nella vecchia Inghilterra nel 1912, che avrebbe sancito anche la preistorica
predominanza della stirpe, in un luogo sul quale prontamente fu apposta lapide commemorativa e furono spesi fiumi di parole, in realtà, dopo quarant’anni, si rivelò essere una splendida bufala,
un reperto ricostruito con parti di ossa umane medievali, una mascella di scimpanzé ed altri pezzi addirittura provenienti dalla Cina. Tutto per un prestigio personale e per quello di una nazione
che immediatamente si schierò, prima delle verifiche del caso, a fianco del presunto scopritore, certa che così non poteva che essere, per quello stesso disegno divino per cui l’impero era dovuto
e sacrosanto. Due imperi, due chimere, due menzogne colossali. A loro, gli inglesi, dopo la magra figura, almeno restò l’impero, quello vero. A noi,
scoperta la bufala della carta straccia cosa rimane? D’altronde le cose migliori, quelle vere, sono sempre state semplici, senza bisogno di calcoli complessi, quelli dove l’uomo si rifugia quando
vuole ingannarsi.