Un sogno musicale

Creato il 18 ottobre 2010 da Pupidizuccaro

Ci si può svegliare sereni la mattina, se si è appena sognato di insegnare inaspettatamente musica a una classe di bambini incuriositi. Ero stato ingaggiato per il mio solito spettacolo su Nick Drake, in cui racconto la sua storia e di cui suono diversi pezzi con la chitarra. Non so spiegare perché in quell’occasione mi accompagnavano in macchina i miei genitori, e neanche il motivo per cui – dopo un po’ – ritrovavo in aula anche mia zia. Lei ama la musica e canta in un coro. Ero pronto. Non vedevo l’ora di suonare e suonare Nick: farlo conoscere, far conoscere una cosa che amo agli altri. Non si trattava di insegnare nulla, ma di diffondere, questo sì. Appena entro a scuola, non vedo nessuna scuola. Oltre il portone (non so perché si era già fatta sera) soltanto un vialetto di larghi mattoni quadrati, appena distanti fra loro lo spazio giusto per farvi crescere in mezzo l’erbetta selvatica. C’è soltanto una sorta di tendone bianco in fondo, come quelli che mettono d’estate sui prati nei circoli ricreativi della ricca borghesia in riva al mare. Sta per iniziare a piovere, quindi ci affrettiamo.

L’entrata in aula diventa un ecco ragazzi, ci siamo, è arrivato l’insegnante. Non sapevo chi fosse la persona che credevo essere il maestro di quei bambini. La classe è molto grande, come minimo trenta alunni. Tutti disposti in file orizzontali di banchi bianchi tutti uniti, in larghezza, da una parte all’altra del capannone che adesso si riveste di pareti cementate marroni. Alle parole del responsabile, guardo i miei, incerto sulla situazione. Loro mi hanno accompagnato in macchina perché era sicuro che avrebbe piovuto, ma soprattutto per il mio spettacolo che non hanno ancora mai visto. Così anche mia zia, che è arrivata sul posto prima di noi. Non posso rifiutare qualunque trasformazione venga imposta al mio ruolo, che sia da cantastorie in musica a insegnante di musica e chitarra per bambini. L’ingaggio è stato accordato e ora mi devo accordare io all’imprevisto.

In una zolla sospesa del tempo, mentre capisco che avrei insegnato e non suonato Nick Drake, mi viene in mente un viaggio nella notte temporalesca a bordo di un autobus vuoto, a parte me e il conducente, che fila dritto per una strada lunghissima infinita in mezzo alle cataratte di pioggia che si rovesciano negli orizzontali cilindri di luce dei due fari anteriori. Appena rientro dalla visione, i ragazzi sono già tutti sistemati, il coordinatore mi guarda con aspettativa esponenziale e accennando sorridente all’orologio appeso al muro, perché siamo in ritardo. Io mi giro verso i miei che fanno spallucce. Così, mentre decido comunque di sfoderare la mia chitarra, forse per darmi coraggio, ci pensa il badante a darmi il la.

“Come dicevamo prima, bambini, oggi imparerete i fondamentali della musica e il modo per lavorare con cellule tematiche precise, così da poter poi costruire le vostre personali melodie. Un po’ come in pittura”, precisa guardandomi. La mia faccia a punto interrogativo lo spinge ad andare alla lavagna. “Se devo fare un viso, ad esempio, io prima disegno un cerchio e in questo cerchio traccio le coordinate di proporzione delle componenti che poi andrò a perfezionare: naso, occhi, bocca e orecchie”, spiega lui ammiccando con complicità verso di me. A questo punto, inizio a parlare io e non la finisco più. “Come diceva il vostro tutore, ragazzi, la musica bisogna intenderla come l’arte della composizione. Non solo in fase produttiva, ma anche in fase di fruizione: quando ascoltiamo, in fondo, siamo noi che ricomponiamo i vari suoni nella nostra mente, e al solo ascolto possiamo imparare da zero i fondamenti, anche senza saperlo”.

Mi impegno in una discussione che verte sulla specificità delle note e il loro posizionamento nel pentagramma, la divisione in tempi, ritmi, cadenze, volumi, minima, semiminima, crome, biscrome, pause, accidenti e chiavi d’interpretazione del mondo. Ma, soprattutto, intermezzo qua e là ripetendo che bisogna voler bene davvero alle note e alla musica per farla. Un sorriso accompagna le mie parole e sono sicuro che serve anche a fare entrare in testa ai bimbi le cose che ancora non possono pienamente afferrare. Dopo una felice dissertazione, semplice negli sviluppi e alternata a cenni di assenso di mia zia che conosce la teoria musicale (al contrario di me che la mastico solo un po’, più per istinto) il mio complice pone sul tavolo una questione: “parlaci delle cellule tematiche”.

… ci vogliono tre puntini di sospensione per farmi ricollegare questa richiesta al discorso della pittura che aveva fatto prima. “Allora, ragazzi. Possiamo anche associare col tempo l’uso di determinati pacchetti di note al desiderio di esprimere i sentimenti voluti. Se per esempio ho in mente un’atmosfera nostalgica sul triste, partirò da un gruppo di note in re minore”.

“No, aspetta!”, il supervisore non ci sta e continua accomodante: “Io direi di partire dal do maggiore e continuare col fa passando poi per il si o il sol, a scelta”. Mentre parla di queste cose ha ripreso a disegnare alla lavagna e io cerco di inserirmi nel suo pezzo: “Penso che ci starebbe benissimo anche un fa settima più, al posto del semplice fa maggiore”. Al che mia zia, che finora era stata zitta, interviene: “Non è necessario dire fa settima più, puoi dire anche soltanto fa settima” e sorride compiaciuta. Quale che sia stato il seguito, ricordo che la classe diventava un coro armonico di proposte degli stessi ragazzi che adesso nessuno riusciva, né voleva interrompere. Io, a quel punto, ero felice. Felice. Non avevo fatto il mio spettacolo ma probabilmente ero entrato veramente in contatto con l’altro-da-me.

Il canale era stato il mio amore per la musica e, pensando che essa possa davvero far crescere meglio qualunque persona, al mio rientro mattiniero in dormiveglia – prima di aprire gli occhi al buio garantitomi dalle finestre ancora chiuse – mi è ritornato in mente che importanti filosofi greci avevano senza dubbio inserito la conoscenza e l’insegnamento della musica come fondamentale materia per lo sviluppo completo e la crescita morale e civica di ogni cittadino. Così, almeno, ribadiva padre Florenskij nei suoi scritti. Nulla a che fare col futuro lavorativo di ciascuno. Soltanto, imparare la teoria musicale per allargare qualitativamente la mappa del mondo su cui ognuno interpreta la propria esperienza e poi la rappresenta. Poi, ho pensato che sarebbe un risveglio felice quello di un insegnante di musica pratica nelle scuole. Poi, ho avuto una sensazione di benessere, mentre mi mettevo seduto sul letto, ed è stato bello. Poi, ho preso il caffè.


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