Non è questo che accade quando, in musei, chiese o siti archeologici, ci imbattiamo nell'iscrizione "Copia di x (l'originale è conservato in y)"? La sensazione di condivisione e di piacere data dall'opera d'arte, che spesso evoca per noi un modo di sentire, un tempo lontano, si dilegua improvvisamente al subentrare della coscienza della sua falsità. Un prodotto pur sempre bello, elegante, realizzato magari con una perizia lodevole, ma non l'originale.
Inutile inaugurare una divagazione sulle migliaia di opere sottratte al nostro Paese (ma lo stesso vale per i tesori egiziani o per gli apparati decorativi dei templi greci) attraverso conquiste belliche, saccheggi, furti, aste e compravendite. Sappiamo benissimo che in Paesi lontanissimi sono custoditi tesori che abbiamo perso e che fruttano a qualcun altro montagne di quattrini sonanti: statue, dipinti, vasi antichi... ma non mi aspettavo di dover includere in questo elenco anche un'intera stanza!
La sala in questione è lo Studiolo di Guidobaldo da Montefeltro[1], commissionato dal padre, il Federico che aveva voluto il più grande e più celebre Studiolo di Urbino, per arredare una parte del Palazzo Ducale di Gubbio e realizzato pochi anni dopo il 'fratello maggiore' (1475-1482). Si tratta di un piccolo ambiente collocato vicino all'ingresso del palazzo eugubino, destinato al raccoglimento dello studio e della lettura (la seconda metà del XV secolo vedeva ormai il fervore degli studi umanistici) e rivestito di pannelli decorati a tarsie realizzati da Francesco di Giorgio Martini, Giuliano e Benedetto da Maiano e Giusto di Gand con diverse varietà di legno: acero, pero, ciliegio, pioppo, noce, quercia, fusaggine e gelso.
La pregiata lavorazione riproduce la mobilia e l'oggettistica tipici delle piccole biblioteche private, raffigurando scaffalature con panche alla base e vetrinette in cui sono conservati strumenti musicali, libri, leggi, strumenti di calcolo e armi. Al di sopra dell'intarsio corre un fregio su cui si leggono alcuni versi latini in distici elegiaci:
ASPICIS ÆTERNOS VENERANDÆ MATRIS ALVMNOSL'iscrizione contiene un riferimento alla rappresentazione della Sapienza che si concretizza nella decorazione in tutte le sue forme e all'atto di ammirazione della raffigurazione stessa da parte di coloro che venerano la cultura come un valore totalizzante, di fronte al quale chinarsi in segno di rispetto.
DOCTRINA EXCELSOS INGENIOQVE VIROS
VT NVDA CERVICE CADANT ANTE ORA PARENTIS
SVPPLICITER FLEXO PROCVBVERE GENV
IVSTITIAM PIETAS VINCIT REVERENDA NEC VLLVM
POENITET ALTRICI SVCCVBVISSE SVÆ
Stai osservando come gli eterni allevi della veneranda madre,
uomini eccellenti per cultura e per ingegno,
pieghino il collo nudo di fronte al volto della madre;
si inginocchiarono in atto di supplica.
La devozione, degna di reverenza, vince sulla giustizia
e nessuno si pente di essersi prostrato alla propria nutrice.
La grande devozione della committenza, tuttavia, non è bastata ad alimentare quella di coloro che hanno ricevuto in eredità lo Studiolo. Nel 1874, infatti, il Comune di Gubbio vendette la decorazione lignea al principe Filippo Massimo Lancellotti, che la usò per decorare la propria residenza a Frascati e la cui famiglia ne mantenne il possesso fino al 1937, quando l'opera passò ad un mercante d'arte tedesco di origine ebraica; con l'avvento delle Leggi razziali, Adolph Loewi (questo il nome dell'acquirente), decise di migrare negli Stati Uniti. Nel 1939 il Metropolitan Museum of Art acquistò la decorazione per 32.000 dollari ed è a tutt'oggi il proprietario dell'opera, che esibisce con ovvia e comprensibile fierezza, presentandolo come un 'capolavoro di prospettiva' un 'miracolo dell'illusionismo' e un 'vettore di profonde associazioni storiche'[2].
Dal 1874 al 2002 la stanza dello studiolo rimase un ambiente spoglio e degradato, con le pareti di pietra a vista. Nel 2002 l'Associazione Maggio Eugubino e la Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia finanziarono il progetto di ricostruzione dello studiolo, che venne affidato agli ebanisti Marcello e Vincenzo Minelli, i quali, sulla base di disegni d'archivio, realizzarono una notevole copia dell'ambiente originario, restituendo a Gubbio lo Studiolo nel 2009.
Quella che si ammira oggi a Gubbio non è, dunque, che una copia dello Studiolo originario. Ho scoperto questo piccolo rifugio di lettura e ho saputo ancor prima di uscirne che stavo ammirando una ricostruzione, un falso, risultato della scelleratezza di chi non ha saputo godere e apprezzare un capolavoro.
Chi ha voluto lo Studiolo, però, sembra aver avuto un presentimento sul ruolo che il tempo avrebbe esercitato su di esso.
Su uno dei pannelli è raffigurato un leggio sul quale è aperto il libro X dell'Eneide. Nei versi leggibili (457-490) si sta consumando il duello fra Turno e Pallante, che terminerà con la morte di quest'ultimo. Il padre di Pallante, piangendo sul corpo del figlio, pronuncia poche parole che costituiscono uno dei manifesti della civiltà umanistica: la riflessione sul tempo fugace.
Stat sua cuique dies; breve et inreperabile tempusQuesti brevi versi, con il loro inneggiare alla caducità del tempo che corrompe e getta nell'oblio ogni cosa, mi sembrano l'epigrafe dello Studiolo di Guidobaldo, vittima di un suicidio incredibile, la marca di una grande impresa il cui ricordo e il cui valore sono ora goduti da un Paese lontano e da cui ci divide l'oceano.
omnibus est vitae: sed famam extendere factis,
hoc virtutis opus. [...]
Fisso a ciascuno è il suo giorno; breve e irrevocabile
è per tutti il tempo della vita: ma estendere la fama con le imprese,
questo è il premio del valore.
C.M.
NOTE:
[1] Le notizie storiche sono tratte dall'opuscolo realizzato dall'Associazione Maggio Eugubino in occasione della ricostruzione. Le immagini provengono dal sito del Metropolitan Museum of Art.
[2] Presentazione del volume The Gubbio Studiolo and its conservation di Olga Raggio.