Un tema e un libro: racconto e poema – Gianfranco Lauretano

Da Narcyso

RACCONTO E POEMA

C’é stato tutto un gran chiacchierare negli ultimi anni intorno alla rivisitazione di un genere dotato di grande storia e gloria – il poema – sul perché ripraticarlo e come riconsegnarlo alla modernitá. E non é che sia giunti a una qualche conclusione se, per esempio, in una mini rassegna curata recentemente alla palazzina Liberty di Milano proprio sul tema del poema, venivano accostati autori diversissimi tra di loro, con esclusioni clamorose anche, e con esiti di poematicitá tali da far pensare che i giochi non siano per nulla conclusi.
E’ comunque un tema, questo, che ha prepotentemente incrociato il dibattito sull’urgenza di una poesia piú comunicativa, capace di captare l’attenzione di un lettore messo ai margini da un contesto letterario iper avviluppato, tale da far assomigliare la poesia alla maschera tragica di se stessa.
Sono state prodotte opere egregie in questo ambito – penso per esempio a FUORI I SECONDI, al più recente CASA DI VETRO, di un autore appartato come Corrado Bagnoli – opere bellissime di per sé, certo, ma anche portatrici di tratti riconoscibili nel contesto di un’ eventuale scuola che a dire il vero avrebbe potuto attecchire in Italia a partire dall’ “Angel” di Loi ma che ha tardato a mostrarsi – e del resto a macchia di leopardo, senza reale convinzione – probabilmente perché il lirismo funziona ancora oggi, piú di ogni qualsiasi realismo, come reazione privilegiata al decadentismo, senza l’urgenza di quella nuditá della parola che il racconto esige, mentre la lirica rimane piú arroccata alle maschere della forma, e quindi, nel suo statuto di autonomia, si mostra meno compromissibile.
Ora, se é accettabile l’idea che il poema debba contenere il racconto, tutti i possibili racconti, non é necessariamente vero il contrario. Il poema, infatti, trincerato nella sua costruzione a cattedrale, é tale in quanto non gli interessa il racconto in sé ma la capacitá di trascenderlo. Se non fa questo é romanzo. Ingigantita ogni vicenda, ogni pathos, ogni umana tragedia, perfino l’aspetto fisico dei personaggi nel poema é abnorme, altro dal reale.
Il racconto, quindi, non puó contenere il poema. Esso, peró puó rappresentarne la sovrastruttura, essere la declinazione spicciola del grande gesto che, nella sua sovrumanitá, potrebbe atterrire o non essere capito. Poema e racconto, insomma, non sono la stessa cosa.

***

Gianfranco Lauretano, RACCONTO DELLA RIVIERA, Raffaelli 2012
Il libro si presenta nella forma di una narrazione in versi, quindi mi sembra che, malgrado la brevitá – ma forse potremmo immaginarlo come la premessa di una piú vasta composizione – questo poemetto possa interferire col discorso fatto prima.
L’idea di una ipotetica vasta composizione sarebbe ben supportata dal retroterra culturale e geografico in cui da sempre Lauretano si muove – la sua opulenta e puttana Romagna – il cui corpo é circondato dall’aureola dei vizi della modernitá, ma, appunto per questa ricchezza, capace di alimentare un vasto immaginario, che é una delle esigenze del poema -
Tale giá appariva, questa terra, in OCCORREVA CHE NASCESSI e ora qui, con la maggiore centralitá del tema di un moderno Orfeo/Marco che perde la sua Euridice/Chiara e questa volta la musica niente puó redimere, meno che la vita:

Io sono la musica, poema
del secolo e della guerra
io vi polverizzo. Il tuo braccio
cos’é diventato? Ti chini
e la schiena si fa a pezzi
sei un involucro ben fragile
non hai sangue e non hai ossa
pieno di polvere e di gesso
come la musica e il ritmo.
Ogni volta che la percussione
vibra la sua sorda fitta
il tuo corpo si divide
un pezzo di carne a colpo
tu-tu-tam! tututù tutù-tam!
p 31

E devo questa immagine di una giovane donna perduta in un incidente automobilistico il giorno del suo matrimonio, a una recente rappresentazione dell’opera di Gluk in cui i due giovani si perdono nei bagordi orgiastici di una struggente giovinezza, cosí come accade ai personaggi di questo racconto di riviera, con tutti quegli elementi nefasti e orgiastici – il branco e i suoi riti – che a Lauretano interessa illuminare in funzione di denuncia – e soprattutto, forse, per una colpa dei padri, chè dal padre fugge questo Mario col suo scooter e dal padre ritorna – . “Come ogni storia del mondo/comincia anche questa da un padre/il babbo di Marco in pensione/che passa da un vecchio divano/in cucina a una stanza da letto/che dorme che mangia che guarda/programmi dementi” p 13.
Alle tappe del racconto Lauretano alterna, in funzione di voce riflessiva, i momenti in cui egli utilizza la sua vena squisitamente moralistica per dire che, la comprensione di quello che avviene, non puó essere rimandata ai fatti in sé come in tutte le narrazioni realistiche, ma al valore etico della poesia, del senso della tragedia annunciata attraverso l’intuizione e la premonizione:

Cosa dobbiamo mendicare
per essere complici, noi
persone, gente, branchi
soli? Che cosa ci unisce?
A noi e alla vita che cosa?
Deflagrati. Implosi. Morti
segretamente. E’ finita, non vedo
oh Tu…non vedo niente…
p 19

Commistione redentrice del tragico, unita al dramma del quotidiano: prima il gas invadente che occupa il cervello e annebbia la vista, le azioni, poi l’inevitabile accadere del male e infine il capire e il sentire che “qualcosa si é rotto, qualcosa/ di infernale che non fa paura/una mano buona tiene/ fermo il cuore, l’ha capito/ció che é stato non va via” p 43.
Ogni cosa puó tornare alla vita, dunque, al padre che ci sta aspettando.

Non corre
piú niente, niente scivola
niente é obbligatorio né calcolo
tutto esiste per se stesso e per te.
p 42

Sebastiano Aglieco


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