Un Tentativo di Diradamento di Nebbia

Creato il 06 maggio 2013 da Dietrolequinte @DlqMagazine

Mario Turco 6 maggio 2013

A leggere ciò che scrive Miguel de Unamuno nel capitolo introduttivo al romanzo Nebbia, da me letto nell’edizione De Agostini con la traduzione di Flaviarosa Nicoletti Rossini, il titolo di questa recensione giocherebbe con troppa facilità su un comodo giro di parole; il che rifletterebbe la magra considerazione che nutrirei nei confronti dei lettori. Se i guitti italici di zelighiana memoria continuano a impostare il loro repertorio su un indistinguibile casellario di assonanze fonetiche, noi mediocri redattori dal canto nostro, infatti, non sappiamo rinunciare a deboli rimandi metaforici affinché un titolo sia contemporaneamente allusivo e brioso. Del resto, nemmeno i famosi paradossi dello scrittore spagnolo erano poi così alieni da questo ricorso alla figuratività brillante. E poi, come ulteriore giustificazione programmatica, potrei citare lo stesso Nebbia, dove a un certo punto compare una formula che ha intenzionalmente forma epigrammatica: «Chi non confonde si confonde». Cioè, chi non confonde ancor più la nebbia nella quale viviamo cercando di penetrarla, rimane invischiato nella stessa. Anche un deprecato gioco di parole, declinato vieppiù nell’ammiccamento giornalistico, può allora servire allo scopo. Insomma, senza il rifiuto aprioristico del popolano che compie l’autore basco, tutto può servire al tentativo di uscita dal cul-de-sac della nostra esistenza. Miguel de Unamuno fu persona assai eclettica ed è rimasto immeritamente conosciuto quasi esclusivamente in ambito spagnolo. Gli fu sicuramente nemica la concentrazione di grandi intellettuali che contrassegnò l’epoca in cui visse, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento: Thomas Mann, Sigmund Freud, Marcel Proust e Luigi Pirandello furono portatori di novità letterarie dispiegate con maggior caparbietà e selettività rispetto alla dispersività di Unamuno che ebbe (ed ha) infatti più fortuna come filosofo e saggista che come romanziere e poeta. La sua personalità esuberante, polemicamente sempre sferzante con (in ordine) il re Alfonso XIII, il dittatore Primo de Rivera e infine con il generale Francisco Franco, fu causa dell’esilio e della destituzione dalla carica di rettore dell’Università di Salamanca, la più prestigiosa della Spagna.

Anche la vita spirituale non fu per lui mai pacifica: nonostante il suo convinto cristianesimo, ebbe irrisolte crisi di fede che lo portarono ad abbandonare il dogmatismo cattolico ma che non gli fecero perdere il sostegno dell’idea dell’immortalità dell’anima. Così scrive di lui, ad esempio, il personaggio fittizio di Victor Goti nel Prologo di Nebbia: «La sua idea fissa, monomaniaca, è che se la sua anima non è immortale e se non lo sono le anime degli altri uomini e anche di tutte le cose, ed immortale secondo l’interpretazione degli ingenui cattolici del medioevo, allora, se non è così, nulla vale nulla e non vi è sforzo che valga la pena di compiere». Uomo di contrasti ma non di contraddizioni, Unamuno fu però il miglior esegeta di sé stesso, come è dimostrato dalla lucidissima analisi dei suoi rapporti con Pirandello nel famoso articolo Pirandello e io, che scrisse quando gli fu fatta notare dai critici la straordinaria similarità di temi trattati con il futuro Nobel per la letteratura. Nebbia, infatti, scritto nel 1907 anticipa, ad esempio, di parecchi anni il tema dell’incontro del personaggio fittizio con il proprio creatore, presente in opere pirandelliane come Sei personaggi in cerca d’autore e Così è (se vi pare). Il libro di Unamuno non fa però di questo espediente la trovata principale attorno alla quale ruota l’intera vicenda. Nebbia è difatti un romanzo filosofico dove sono abbondanti le sperimentazioni, pur nella sua sostanziale brevità (che ha fatto parlare, a torto, alcuni critici di racconto lungo). Prima della vicenda vera e propria troviamo un Prologo firmato da Victor Goti, sedicente scrittore e amico del protagonista Augusto Pérez. Unamuno in questa introduzione accenna appena ai temi metanarrativi e piuttosto la indirizza verso la stesura di una specie di brogliaccio di appunti filosofici, dove si salta molto allegramente da un argomento all’altro. Questo capitolo simula una gemmazione di pensiero che vorrebbe rifarsi alla concatenazione spontanea del dialogo ma una tale struttura di accumulo, vuoi per la brevità delle pur notevoli esternazioni, dà al tutto un carattere di giustapposizione di tesi maturate altrove. In questo modo al neofita di tematiche unamuniane occorre almeno una rilettura per cogliere il senso della posizione di un Prologo che assomiglia a un epilogo.

Lo scrittore infatti non è interessato allo sviluppo di una storia: anticipa già al secondo capoverso il suicidio-morte di Augusto, allentando di fatto la canonica costruzione empatica. Il Post-prologo (altro lazzo linguistico, poche pagine più tardi però criticato) prosegue su questa falsariga. Unamuno si diverte a consegnarci un’immagine di sé alquanto bizzosa e collerica, minacciando di morte Victor Goti per aver criticato le sue decisioni. C’è una specie di ritrosia ad iniziare il romanzo, acuita dal successivo capitolo Storia di Nebbia, in cui lo scrittore continua il suo monologo, annotando la sua carriera nel mondo delle lettere europee con stimolanti riflessioni sulla nebbia che avvolge e rende indistinguibili il mondo dell’arte e quello reale: «Il sogno di uno solo è l’illusione, l’apparenza; il sogno di due è già la verità, la realtà. Cos’è il mondo reale, se non il sogno che tutti sognano, il sogno comune a tutti?». Dopo questa prosecuzione filosofica de La vita è sogno di Pedro Calderón de la Barca, inizia finalmente il romanzo vero e proprio. Il quadrilatero sentimentale inscenato dai quattro protagonisti principali viene piegato da Unamuno alle proprie esigenze divulgative. Si trovano così dotte dissertazioni sull’amore, sull’anima («L’anima è una sorgente che si rivela con le lacrime», stupendo verso che avrebbe meritato maggior respiro poetico), sulla paternità, sul gioco degli scacchi e mille altre tematiche. El rector, come veniva chiamato lo scrittore nella Spagna dei suoi tempi, risulta così fin troppo pedagogico. Le rare volte in cui si lascia andare alla pura invenzione narrativa, vedi la nostalgia che attraversa il quinto capitolo incentrato sulla madre di Augusto, non riesce a fare di quell’isola un arcipelago. Nebbia è un romanzo troppo fitto, con troppe luci gettate in faccia al lettore affinché si possa orientare tra la bruma gelatinosa della vita. Molti dei capitoli non sembrano pezzi di un unico puzzle ma funzionano benissimo come racconti indipendenti. Si crea una tensione tra la voglia di unitarietà che si scorge per tutto il testo, incentrata sulla nebbia di vanità che avvolge la vita di Augusto e di quelli come lui (tutti), e la poliedricità stilistica che fagocita personaggi che si esauriscono nell’ambito di poche pagine (Antolín Sánchez Paparrigópulos). Il sempre presente moralismo dello scrittore, che non lesina i suoi strali nemmeno per le piccole cose quotidiane, snatura quella che era probabilmente l’intenzione originaria di un maggior addensamento della nebbia esistenziale.

È come se Unamuno stesso non si contentasse della innegabile simbolicità della vicenda di Augusto e, per soprammercato, volesse rimpolparla con un ricettario teorico già collaudato. Il cinismo della vicenda, dell’innamoramento verso una maestra di pianoforte che suona quello strumento unicamente per lavoro poiché in realtà lo detesta, di un ragazzo confuso che si sveglia alla vita e all’amore per pura casualità, non perde comunque di efficacia fino al drammatico abbandono della promessa sposa. Si arriva così al famoso capitolo trentuno, che dà un’imprevista svolta filosofica alla storia. Augusto prende la decisione di suicidarsi e poiché aveva letto un saggio di Unamuno sull’argomento, va a Salamanca per consultarsi con lui. Lì apprende con orrore quello che aveva paventato più volte nel corso del romanzo: egli è solo un ente di finzione, frutto della fantasia nivolesca (da nivola, variante dell’autore per designare il proprio genere diverso dalla più tradizionale novela) di Don Miguel. Riavutosi dopo l’iniziale shock, Augusto riprende la forza e controbatte con tesi inoppugnabili che potrebbe essere Unamuno a non esistere, «che non sia lei unicamente un pretesto perché la mia storia giunga fino al mondo». Ecco il cuore del romanzo, il ribaltamento prospettico che rende non soltanto l’esistenza di un personaggio fittizio impalpabile come una nebbia ma perfino quella dell’autore della storia. La friabile linea di demarcazione tra realtà e immaginazione si sfalda completamente, rendendo tutto incerto e relativo. In fondo, l’unica sicurezza che abbiamo è che «Dio, quando non sa che cosa farsene di noi, ci uccide». Così Unamuno, Dio-padre-padrone-creatore prende l’irrevocabile decisione di uccidere Augusto Pérez come risposta alle invettive di quest’ultimo. Il capitolo si chiude con il lamento disperatamente lucido del condannato che causa una lacrima allo scrittore (e non solo a lui): «Ebbene, mio creatore, mio signor Michele, anche lei morrà, anche lei, e tornerà al nulla dal quale venne [...]. Dio tralascerà di sognarla! Morirà lei e moriranno tutti coloro che leggeranno la mia storia, tutti, tutti, tutti, senza che uno rimanga! Enti di finzione come me; uguali a me!». Ecco allora che la nebbia è diradata completamente dalla più antica delle profezie: tutto ciò che ha la sfortuna di nascere, muore. Perfino il pensiero.


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