Il risultato è che la maggioranza delle persone con una laurea umanistica (62%) o in scienze sociali (76%) hanno valutato la ricerca con la formula farlocca come più accurata rispetto a quella che ne era priva. Ma anche i partecipanti con istruzione tecnico-scientifica hanno dimostrato di dare un credito significativo allo studio manomesso, visto che quasi la metà di essi (46%) lo hanno giudicato più attendibile dell'altro.
L'articolo cita altri esperimenti, e accenna a numerosi casi di studi problematici sotto il profilo matematico finiti tuttavia su prestigiose riviste scientifiche, Nature compresa. Ma per il momento possiamo trarre due conseguenze. La prima è implicata nel contenuto di ciò che ho detto, la seconda nel modo in cui l'ho esposto.
Innanzitutto, la matematica ha un valore persuasivo intrinseco – a prescindere dalla sua esattezza - soprattutto su chi non la comprende. Ma anche chi dovrebbe conoscerla le crede sulla fiducia molto più spesso di quanto dovrebbe.
La seconda conseguenza è che il luogo comune secondo cui i numeri “parlano da soli” è spesso un pericoloso specchietto per le allodole. Ad esempio: rileggendo tre capoversi più sopra, si noterà che ho messo a confronto tre percentuali, ma la loro valutazione non è meramente quantitativa. Riferendomi al 46% dei laureati in discipline scientifiche, avrei potuto sostituire il “quasi la metà” con “meno della metà”, facendo slittare il senso del ragionamento verso una diversa lettura. Affermare che 'i numeri parlano da soli' significa dunque attribuire loro un valore oggettivo al di sopra dell'interpretazione e del loro uso strumentale e argomentativo, come se fossero prove di fatto e non uno dei tasselli al servizio di una dimostrazione verosimile, ma non necessariamente vera.
Tuttavia, anche in questo luogo comune c'è un fondo di verità, e chi si occupa di marketing aziendale o politico la conosce bene. Perché, malgrado quanto appena detto possa sembrare ad alcuni ovvio, nonostante tutto le cifre continuano ad esercitare un magnetismo inspiegabile. Lo sappiamo, ma continuiamo a crederci.
Se vogliamo qualche esempio oltre alla pioggia di percentuali tipica del clima elettorale, possiamo trovarlo proprio nel web e nella sua attrattiva per le metriche, utilizzate a scopo propagandistico a volte – sia chiaro - in buona fede. Spesso, anzi, non serve nemmeno mettere mano ai numeri: basta che un dato sia presentato come il frutto di un algoritmo per ottenere l'implicita presunzione di oggettività. L'algoritmo è segreto e il suo meccanismo può essere solo inferito, eppure (o proprio per questo) la sua forza persuasiva è più forte di qualsiasi confutazione razionale, come se non fosse il risultato delle scelte arbitrarie di chi l'ha formulato.
Lo sanno bene quelli di Klout: pochi ormai credono a questo coefficiente di influenza, eppure controllare un numero che sale e scende è una scarica endorfinica, proprio come una bilancia che sappiamo essere mal tarata, ma è comunque un numero, è comunque un risultato. (Lo stesso può dirsi per il numero di like e di follower – che non a caso si continuano a comprare).
La questione va ben oltre il discrimine tra ciò che è credibile e ciò che è oggettivo, e il fatto che ogni cifra è la vettorializzazione di un aspetto della realtà, a discapito di altri. Nell'attrattiva per i numeri tali giace una forza simbolica che ha poco a che fare con la logica che normalmente si attribuisce loro. Dan Sperber lo definirebbe un cultural attractor. Qualche neopitagorico solleverebbe la questione archetipica. Ma i numeri, che cosa ci dicono realmente, oltre ciò che vogliono quantificare, bucando lo schermo e i fogli?
Anche l'uomo digitale non è immune dalla superstizione: quella della propria razionalità.
Francesco Vignotto | @francescovi