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Un Verso è Una Vasca di Franca Mancinelli

Creato il 15 luglio 2012 da Wsf

Un Verso è Una Vasca di Franca Mancinelli

Quando percorro avanti e indietro le vasche di una piscina, alla ricerca di quello stato di narcosi che mi coglie poco tempo dopo il ritorno all’asciutto, mi seguono inizialmente alcuni pensieri. Scorrono leggeri sulla superficie insieme alla mia chiglia, fluttuano appena sulla linea nera che guardo per non deviare. Per un’ora circa avrò soltanto alcuni gesti, con le braccia che a volte sembrano tagliare l’acqua in un modo esatto, disegnare un arco deciso, oppure oscillare e cedere all’informe; ripeterò gli stessi gesti fino a quando sentirò le spalle muoversi in un celeste che lentamente si solidifica. Allora risalirò dalla scaletta, ascolterò la doccia e il phon, e tornata a casa lentamente verrò richiamata nel fondo, dove si depone il governo delle mie forze.

Alle prime bracciate, quando ancora l’acqua non è stata dissodata e i miei archi procedono incerti, mi sembra di continuare a scrivere, su un foglio limpido, con tutto il corpo. Penso che si arrivi alla fine di un verso, come di una vasca, muovendosi all’interno di una misura. Una serie di gesti si ripete fino a che si raggiunge una sorta di equilibrio per cui sembra di non muoversi, ma di essere portati. Chi infrange il codice di movimenti e si dibatte oltre la forma stabilita, affatica il suo corpo e alla lunga lo addolora. I suoi schizzi suonano stonati, non necessari. Sbaglia per incapacità o per ignoranza. Ne vedo diversi avanzare sul dorso battendo le gambe con i ginocchi piegati, oppure andare di continuo ad urtare con il gomito i galleggianti delle corsie; danno l’impressione di animali finiti in acqua per errore, o di nuove specie lacustri, disarmoniche, sorte in seguito a qualche modificazione chimica. Conservo con gratitudine le frasi dei miei insegnanti di nuoto; ricordo ancora quando uno mi disse che l’acqua non fa del male, ed appena lo sentii e mi abbandonai a lei, trovai la leggerezza che serve per nuotare sul dorso, senza temere di bere dal naso. Il fatto è che i movimenti sono già tutti scritti. L’unico pensiero è quello di aderire, di eliminare ogni intenzione che fuoriesce dal tracciato.

Anche se si arriva al bordo della vasca con un turbinio di rabbie e di rancori, nello stesso istante in cui ci si affida all’acqua le passioni come scorie tendono verso il fondo, liberano i propri riflessi nel gioco della superficie. Con il roteare delle braccia e il battere delle gambe, poi sembrano del tutto dissipate. In realtà hanno obbedito a leggi più grandi dell’istinto, e all’interno di quel rito di obbedienza si sono placate. Allo stesso modo, quando ci si affaccia alle soglie di un verso, non si arriva alla sua fine senza che lo stato emotivo che ci portava,  non sia stato in qualche modo addomesticato. Si scrive con la stessa cieca consapevolezza con cui si nuota: ogni intenzione o slancio deve essere sorretto da tutto il corpo, approvato dalle sue forze e dalle sue riserve. Ogni gesto deve confrontarsi con la necessità di resistere fino a toccare almeno il bordo della vasca.

Non si sovverte la tradizione in un attimo, in un sussulto di immaginazione eccedente. Se mai nascerà un nuovo stile, o una variante all’interno di quello codificato, sarà per un progressivo e lento distacco dai movimenti precedenti, attraverso prove calibrate, minime infrazioni accolte.

Lo stile libero non esiste, non si è mai liberi se si vuole nuotare.

*

Le uova ci sono e l’oca le cova. Forse è passato un mese, forse tre. Un vecchio che viene a potare la siepe dice che il tempo della cova è terminato, che là sotto, se c’è qualcosa, è tutto morto, e che se non si tolgono le uova l’oca continuerà ad avvolgerle nel ventre, fino a perdere le forze e ad ammalarsi. Il vecchio allora si china sul nido, prende le uova una ad una, le avvicina all’orecchio e le scuote. Quelle che fanno un rumore sordo le spacca contro una pietra. Sulle zolle si apre un liquido rosso e marrone, gelatinoso e maleodorante. La maggior parte delle uova viene aperta, poche vengono rimesse nel nido. Assistiamo a questo rito consapevoli che una minima imperizia decide la vita.

Anche nello scrivere c’è un tempo oltre il quale ogni più premurosa costanza e dedizione non valgono a nulla: da quel testo non nascerà una poesia. Un lettore attento e con esperienza può aiutarci a riconoscere quale testo può avere ancora speranze. Forse con il tempo impareremo a distinguere da soli il suono della fissità e quello da cui può nascere la vita. Ma facilmente chi ha fatto le uova è portato ad aspettare oltre ogni limite, a riversare nella possibilità tutto se stesso. Certe cose invece non dipendono neanche del tutto da noi. A volte bisogna semplicemente alzarsi dal foglio, abbandonare il nido, e continuare a muovere passi nell’erba.

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Senza una minimo di amore per se stessi non si parla, né tantomeno si scrive. Posso dirlo perché ho combattuto contro la mia statua di pietra, le ho lanciato calci e pugni. Forse, nella furia, l’ho appena scalfita. Poi dev’essere accaduto che ho smesso di fissarla con gli occhi bianchi, ho smesso l’ostinazione. E lei si deve essere lentamente ammorbidita, fino a riprendere consistenza umana.

Contro noi stessi si può fare molto. Io ho desiderato e immaginato molto. Ma non avevo armi: la lametta scivolava sul polso come burro e la linea gialla non si faceva oltrepassare. Contro di me ho fallito, non ho portato a termine o concluso. Poi ho impugnato la penna ed ho iniziato ad aprire lunghi tagli sulle braccia. Ho squarciato il ventre e l’ho visto sorridere. Più era profondo e esatto il colpo, più stillava gioia.

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È come quando si giocava da soli con il pallone contro la parete. È dal modo in cui torna il pallone che ti accorgi se hai tirato bene. Solo che il tempo del rimbalzo è allungato a dismisura; e poi non sai più se fidarti di te stesso, vorresti che a ricevere il pallone fosse un altro. I momenti più difficili poi sono quando tiri e non riesci a prendere, quando scrivi e non riesci ad ascoltarti: il gioco diventa sordo, i rimbalzi senza ritmo, fino a che arriva il momento di smettere tutto e di sedersi. Nel gioco c’è un meccanismo congenito che segna il limite tra la vita e l’autodistruzione.

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I versi sono i voli di un insetto imprigionato. Non si sa che cosa abbia portato l’insetto attraverso la fessura (un istinto innaturale forse, una bussola infranta). Una volta nella casa, si accorge presto che non è il suo luogo.

Un verso nasce quando l’insetto cerca la via d’uscita dirigendosi dove vede più luce. La fine di un verso è lo sbattere dell’insetto contro la parete invisibile del vetro. Voli e versi si ripetono, ad una cadenza che si fa più ossessiva con l’aumentare della consapevolezza che la vita continua fuori, da dove si è venuti. Voli e versi sono fallimenti.

La maggior parte degli insetti si consuma dentro la casa: si afflosciano alla fine arresi, si posano inebetiti dall’urto continuato.

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Il lavoro del cameriere è fatto di sguardo, distanza, immaginazione. Il suo compito è fare in modo che nessuno chieda di lui. Invisibile compagno, mastica nel pensiero quello che i clienti hanno in bocca. È come se fosse seduto accanto ad ognuno e invece è sempre in piedi, alle loro spalle, in qualche luogo imprecisato.

In genere ogni cameriere ha un suo ruolo e un suo settore della sala: alcuni prendono soltanto le ordinazioni, altri si occupano dall’inizio alla fine di qualche tavolo, i primi arrivati portano l’acqua e il pane. Ma sostanzialmente si lavora tutti assieme, soprattutto quando c’è più afflusso, o quando c’è del personale nuovo, e gli equilibri e i confini non sono ancora del tutto marcati. Allora li vedi aiutarsi con uno sguardo, scambiarsi sorrisi silenziosi nei momenti di fatica. Vedi come con un gesto fanno capire ai colleghi che porteranno loro un’altra bottiglia su quel tavolo. E così ogni tragitto che fanno dalla cucina alla sala è utile, non va perso.

Nei fine settimana di qualche anno trascorso, sono stata una cameriera mite e quasi muta; lavoravo religiosamente chiusa in me stessa, riponendo la stanchezza in un mio luogo remoto. Quando mi sono accorta dei segnali luminosi che si lanciavano gli altri con gli occhi, della tela che li teneva uniti e ogni tanto li faceva persino divertire, il mio tempo era già quasi terminato.

Mi è bastato a comprendere che allo stesso modo si dovrebbe scrivere. Se non si guardano gli altri, se non si sa che cosa hanno fatto e che cosa hanno intenzione di fare, accade facilmente di scrivere pagine che resteranno chiuse, come bottiglie d’acqua arrivate sul tavolo in cui ne serviva soltanto una. Quelle che avanzano sono uno spreco di risorse e di lavoro. Quanti libri si accumulano di fronte agli occhi di lettori che non avevano bisogno di nulla? Quanti scrivono come lavora un cameriere attento? Quanti spartiscono con gli altri la fatica?

*

Cessate le fatiche e i ripensamenti, ci si ritrova con il proprio libro in mano. Anche quei versi che continuano ad emanare un sottile stato di allarme, come non avessimo fatto il possibile per farli funzionare, tacciono come i grandi pilastri della corrente elettrica: più ci si avvicina, più si sente l’aria vibrare come per un’enorme arnia.

Franca Mancinelli

«clanDestino», XXI, n. 4, 2008, pp. 29-32.

Biografia:

Nata a Fano nel 1981, si è laureata in Lettere Moderne con una tesi sulla poesia di Paolo Volponi. È redattrice di «Pelagos» e collabora come critica a varie riviste. Sta curando una raccolta di racconti giovanili di Luciano Anselmi. Suoi testi poetici sono usciti in antologie presso Crocetti, Guaraldi, LietoColle, e in riviste cartacee e on line, tra cui «Poesia», il “bollettino” FuoriCasa, «clanDestino». Nel 2005 ha vinto il premio Senigallia-Valerio Volpini. Sta ultimando la sua prima raccolta poetica, Mala kruna, che in croato significa “piccola corona di spine”.


Filed under: poesia, Racconti, scritture Tagged: Annotazioni sul tempo, Franca Mancinelli, Germogli, Nudità Delle Parole, scritture, WSF

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