È la vigilia di Natale e Il Foglio, a pag. 3, dà notizia di una sentenza della Cassazione.
Cedo all’incantevole leggerezza con la quale vien lasciato scivolare che «non esiste un diritto a non nascere se non sani» (già diverso dal «non esiste un diritto a non nascere sani» che sta a titolo dell’editoriale) sia l’«inverso» dell’affermazione che «chi non è sano non ha il diritto di nascere» («base di tutte le teorie di selezione eugenetica»). Ovviamente non è così, perché il diritto di voto, tanto per fare il primo esempio che mi capita sotto mano, non necessariamente nega il diritto di astenersene; così, affermare che «non esiste un diritto a non nascere se non sani» (che d’altronde la sentenza non fa altro che limitarsi a rammentare sia già un dato di fatto giurisprudenziale in Italia, in Europa e negli Stati Uniti) non esclude affatto che «chi non è sano non ha il diritto di nascere», perché, come la stessa sentenza rammenta col richiamo all’art. 6 della legge n. 194 del 22.5.1978, è consentito negare questo diritto «quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna»: in buona sostanza, a «chi non è sano» la legge non assicura affatto «il diritto di nascere», se la sua nascita può essere di nocumento alla salute fisica o psichica della donna. Potrà piacere o non piacere, ma questo assunto non è neppure scalfito dalla sentenza della Cassazione, che anzi ne ribadisce il principio che vi sta a fondamento, con quanto recita l’art. 1 del Codice Civile («La capacità giuridica si acquista dal momento della nascita»). E allora in cosa, questa sentenza della Cassazione, peraltro vecchia di tre mesi, «chiudere[bbe] una contesa etica e giuridica che aveva aperto spazi a una concezione della persona e della vita condizionata, mentre la unicità della persona è e deve restare un valore assoluto»? La contesa resta aperta, ma solo perché c’è chi si ostina a riaprirla, in opposizione alla giurisprudenza che nega capacità giuridica al feto, e pone condizione alla sua nascita laddove questa metta a rischio la salute della gravida, che può, nel caso, se vuole, far prevalere il proprio interesse su quello del prodotto del concepimento. E quindi dov’è che questa sentenza compie il «passo indispensabile» per evitare le paventate «derive eugenetiche»? Rigetta il ricorso di due genitori lì dove questi pretendevano che nell’omessa diagnosi prenatale di una grave malformazione genetica vi fosse vulnus a un opinabile diritto del nascituro a nascere sano, ma lo accoglie – guarda caso – proprio al punto in cui la controparte pretenderebbe che l’accertamento del «grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna» posto in essere dalla nascita di un feto gravemente malformato dovesse essere preventivamente certificato, e fosse a carico della gravida. In sostanza, ribadisce che la nascita di un feto gravemente malformato costituisca di per se stessa quel «grave pericolo». Che c’è da festeggiare per un antiabortista? La mistificazione sembrava fine, intrigante, con tutte le sue cosine al posto giusto, aveva pure un certo fascino, diciamo. Eccola lì: sotto un leggero strato di fondotinta, un volgarissimo puttanone.